Sorprendente Wesley

Sorprendente Wesley

“La storia personale di Wesley è forse la più sorprendente di tutta la Riforma” scrive il maggior storico moderno del protestantesimo, il francese Emile G. Léonard[1]. Sorprendente per diverse ragioni.

In primo luogo per il grande contrasto tra l’ambiente sociale borghese dal quale Wesley proveniva (era figlio di un pastore anglicano, a differenza di Whitefield,figlio di un oste) e di cui fece parte fino alla fine della sua lunga vita, e le folle di diseredati prodotte dalla prima industrializzazione inglese – il proletariato ante litteram – di cui Wesley fu, insieme ad altri, il primo evangelizzatore. Questa evangelizzazione fu un novum assoluto nella storia cristiana moderna, anche se non fu sufficiente a scongiurare il divorzio tra chiese e proletariato che si consumerà in tutta Europa su vasta scala nel corso dell’Ottocento. Se il metodismo si fosse sviluppato in Europa come si è sviluppato negli Stati Uniti forse il distacco del proletariato dal cristianesimo sarebbe stato meno netto e meno generale.

In secondo luogo, il fatto che Wesley, figlio ed erede di una lunga tradizione puritana, dunque di un protestantesimo dissidente e “non conformista” (anche se già il padre Samuel, insieme alla moglie Susan, aveva abbandonato i Dissenters diventando pastore anglicano), si sia, per così dire, tanto affezionato alla chiesa anglicana (di cui anch’egli divenne ministro, ma non molto amato dalle gerarchie e dal clero in generale) da lottare fino alla fine per evitare che le numerose “società metodiste” sorte dalla sua predicazione e da lui stesso organizzate si distaccassero dalla chiesa d’Inghilterra e costituissero un corpo ecclesiale separato. Il suo modello sembra essere stato quello caro al pietismo continentale della ecclesiola in ecclesia: le “società metodiste” avrebbero dovuto costituire, all’interno della Chiesa anglicana, un fermento di rigenerazione cristiana che si sarebbe esteso anche alla società. Così però non fu: la separazione ebbe luogo sia per la forte spinta in questo senso presente in moli metodisti, sia, soprattutto, per l’incapacità della Chiesa di Stato di rendere la sua struttura episcopale abbastanza flessibile per assecondare un “risveglio” come quello metodista con forte vocazione di “missione interna”, senza soffocarlo o snaturarlo.

In terzo luogo Wesley – uno dei più grandi evangelizzatori cristiani di tutti i tempi – ha concluso la sua prima iniziativa missionaria nella colonia americana della Georgia “con un fiasco umiliante”, tanto che “fu quasi come fuggiasco che abbandonò quel paese, nel quale due anni prima aveva ricevuto un’accoglienza entusiasta”. Il fatto è che, nel tempo trascorso in Georgia (dal febbraio 1736 al dicembre 1737) non gli fu possibile evangelizzare gli indiani, come sperava, e il suo ministero si svolse nella comunità dei coloni inglesi, tra crescenti difficoltà che alla fine divennero aperta ostilità. Il fallimento di quella missione fi per Wesley un’esperienza amarissima, ma rivelatrice, che egli descrive così nel suo Journal: “Mi sono recato in America per convertire gli indiani; ma, oh, chi convertirà me? Chi mi libererà dal mio cuore malvagio?”. E ancora: “Avevo, allora, la fede di un servo e non quella di un figlio”. Wesley, insomma, quando si recò in America, non era ancora convertito: come avrebbe potuto convertire altri?

La storia personale di Wesley sorprende per un quarto motivo: il modo in cui avvenne, nel 1738, la sua seconda conversione (la prima era avvenuta nel 1725) – quella da lui stesso narrata, che tutte le sue biografie riproducono. Avvenne nella comunità londinese dei Fratelli Moravi (pietisti tedeschi della terza generazione, allora guidati nella loro capitale spirituale Herrnhut, in Germania, dal conte Zinzendorf), mentre leggeva una pagina di Lutero che, commentando la Lettera ai Romani, descrive il cambiamento compiuto da Dio nel cuore dell’uomo per mezzo della fede in Cristo. in quel momento – scrive Wesley –

“sentii il mio cuore riscaldarsi stranamente. Sentii che confidavo in Cristo e in Cristo soltanto per la mia salvezza; e ricevetti l’assicurazione che aveva tolto i miei peccati e che mi salvava dalla legge del peccato e della morte”[2].

Ma neppure questa esperienza, benché fondamentale, fu in realtà risolutiva; in Aldersgate Street, dove ebbe luogo il 24 maggio 1738, alle 9 meno un quarto della sera, Wesley pervenne alla certezza personale della salvezza, suggellata da uno “strano” (cioè inconsueto, non naturale) calore del suo cuore, come se fosse abitato da una presenza nuova, divina. Ciò nonostante le inquietudini della sua anima non cessarono subito, svanirono solo dopo qualche tempi per lasciare il posto ad una certezza senza ombre. Ma quel che merita di essere rilevato è che il padre del Risveglio del XVIII sec. è un figlio della Riforma del XVI secolo. L’esperienza decisiva che ha fatto di Wesley un “risvegliato” è avvenuta sentendo leggere una pagina di Lutero. La sua conversione del 1738 ha sì un’inconfondibile impronta pietista (nel senso migliore del termine, quello del pietismo classico), ma anche un’indubbia matrice luterana. Wesley sorprende per la tenacia con cui ha mantenuto e coltivato fino alla fine la componente “luterana” della sua esperienza di fede, nel senso che, pur distanziandosi da Lutero sulla questione della perfezione cristiana, ha continuato a considerare la giustificazione per grazia mediante la fede “la pietra angolare dell’intero edificio cristiano”.

C’è, infine, un quinto motivo di sorpresa nella storia personale di Wesley ed è che in una cristianità divisa e confessionalizzata come quella del XVIII sec., nella quale la coscienza ecclesiale di solito non si spingeva oltre i confini della propria chiesa o denominazione, maturò assai presto in Wesley la convinzione di essere “ministro della chiesa universale”. Convocato nel 1739 dal vescovo di Bristol, gli fu da questi negato il diritto di predicare nella sua diocesi, dalla quale fu invitato ad allontanarsi. Wesley rispose al vescovo: “Credo che per il momento è proprio qui che posso essere di qualche utilità: perciò ci resto. Sono stato chiamato a predicare il vangelo, e guai a me se non lo faccio là dove mi trovo. Vostra Signoria deve sapere che l’ordinazione che mi è stata conferita fa di me un ministro della Chiesa universale. Non credo di violare alcuna legge umana predicando in questa diocesi… “[3]. L’idea di essere un ministro della chiesa universale e quindi di avere, in virtù della propria vocazione e ordinazione, il diritto di predicare ovunque nel mondo è un’idea antica quanto lo è il mandato missionario di Gesù ai discepoli prima dell’Ascensione (Mt 28.18-20), ma era nuova nell’Inghilterra religiosa del XVIII sec. e nel quadro della chiesa di stato. Che un anglicano come Wesley si sentisse ministro della chiesa universale prima che ministro della chiesa anglicana era qualcosa che doveva suonare se non eretico almeno deviante, alle orecchie del vescovo di Bristol, che infatti accusava Wesley e i suoi amici di essere dei visionari esaltati, con la pretesa di possedere rivelazioni straordinarie dello Spirito Santo.

È in questo quadro che si possono cogliere alcune implicazioni dell’affermazione “Considero il mondo intero la mia parrocchia”.

  1. Quel che sta a cuore a Dio non è la chiesa, ma il mondo. La salvezza non è per qualcuno, ma per tutti, quantomeno deve essere offerta a tutti. Se la chiesa si accontenta di offrirla ai suoi membri, tradisce il suo mandato.
  2. In questo orizzonte perdono significato e anche legittimità le piccole gelosie tra feudi ecclesiastici, come putre le polemiche d gli antagonismi tra chiese o all’interno di singole chiese. La vera miseria della chiesa appare quando essa si occupa solo di se stessa, quando cioè, riprendendo l’affermazione di Wesley, la parrocchia dei suoi ministri è la chiesa anziché essere il mondo.
  3. Dichiarandosi “ministro della chiesa universale” Wesley dice in fondo la stessa cosa detta con la frase “considero il mondo intero la mia parrocchia”. Ogni chiesa locale, regionale o nazionale è chiesa universale nella misura in cui l’orizzonte della sua azione è il mondo intero. L’universalità della chiesa non è un dato statistico o geografico, è un fatto spirituale, un modo di essere chiesa – quello che tende a far coincidere i confini della chiesa con quelli del mondo, non però per clericalizzarlo facendolo diventare “parrocchia”, ma per evangelizzarlo insegnandogli la libertà dei figli di Dio.

 

L’articolo è tratto dal libro di Febe Cavazzutti Rossi, John Wesley. La perfezione dell’amore, editrice Claudiana, 2009.

 

[1] E.G. Léonard, Histoire generale du Protestantisme. III: Declin et renouveau. XVIII-XX siecle, Presses Universitaires de France, Parigi 1964, p. 105.

[2] J. Wesley, Journal, vol. I, p. 476.

[3] La conversazione tra Wesley e il vescovo di Bristol ebbe luogo presumibilmente nel 1739. È stata in qualche modo verbalizzata da Wesley in un suo manoscritto riprodotto in The Work of the John Wesly, A.M. senza indicazione di data di pubblicazione.