L’ecclesiologia di Calvino.

L’ECCLESIOLOGIA DI CALVINO.
Calvino tratta di ecclesiologia sostanzialmente nel Libro IV della sua opera l’Istituzione della religione cristiana. Prendendo in considerazione i “mezzi esteriori e ausili con cui Dio si serve per chiamarci a Gesù Cristo suo Figlio e mantenerci in Lui” (IV, 1,1), Calvino coniuga ad una approfondita analisi teorica la sua esperienza quale organizzatore pratico. Innanzi tutto egli spiega perché si ha bisogno di una istituzione come la chiesa. Per il riformatore ginevrino la salvezza non è un semplice apparato dottrinale, ma si radica nella storia attraverso l’incarnazione. Dio usa alcuni mezzi terreni specifici per portare a compimento la salvezza dei suoi eletti. La chiesa, dunque, è una istituzione divina all’interno della quale Dio effettua la santificazione del suo popolo. E qui Calvino chiama in causa un padre della Chiesa, Cipriano di Cartagine, mostrando come la sua ecclesiologia sia radicata nella tradizione patristica: “Non puoi avere Dio per padre se non hai la chiesa per madre” (IV, 1,4). Subito dopo Calvino provvede a tracciare una distinzione: ad un primo livello la chiesa è la comunità dei credenti, un gruppo visibile; ma essa è anche la comunione dei santi, degli eletti, e in tal modo è un’entità invisibile. Nel suo aspetto invisibile, la chiesa è la comunità degli eletti nota solo a Dio; nel suo aspetto visibile è la comunità dei credenti sulla terra (IV, 1,7). Nella prima vi sono solo gli eletti, nella seconda vi sono sia i buoni che i malvagi, gli eletti e i reprobi. La rima è oggetto di fede e speranza, la seconda è parte dell’esperienza storica presente. Calvino ribadisce che tutti sono obbligati ad impegnarsi nella chiesa visibile a motivo di quella invisibile:
“Abbiamo notato infatti che la sacra Scrittura parla della Chiesa in duplice modo. A volte il termine indica la Chiesa quale essa è nella sua realtà dinanzi a Dio, in cui sono inclusi soltanto coloro che per grazia di adozione sono figli di Dio e, mediante la santificazione dello Spirito, sono veramente membra di Gesù Cristo. In tal caso non solo fa allusione ai santi che abitano in terra, ma a tutti gli eletti che hanno vissuto sin dall’inizio del mondo. Spesso invece col nome di Chiesa è indicata la moltitudine degli uomini che, sparsa in diverse parti del mondo, fa professione comune di amare Dio e Gesù Cristo, ha il battesimo come attestazione di fede, e partecipando alla Cena dichiara avere unità nella dottrina e nella carità, dà il suo assenso alla Parola di Dio e ne vuole mantenere la predicazione secondo il comandamento di Gesù Cristo. In questa Chiesa parecchi sono gli ipocriti frammisti ai buoni che non hanno nulla di Gesù Cristo fuorché il nome e l’apparenza, ambiziosi gli uni, avari gli altri, maldicenti alcuni, dissoluti altri, tollerati per un certo tempo sia perché non si possono convertire con provvedimenti giuridici, sia perché la disciplina non è sempre esercitata con la fermezza che sarebbe richiesta. Pure, come è necessario credere quella Chiesa, a noi invisibile e nota solo a Dio, così ci è chiesto di onorare questa Chiesa visibile e di mantenerci in comunione con essa” (IV, 1,7).
Ma questa distinzione non può essere tacciata di introdurre surrettiziamente un principio manicheo, tanto più che non sembra sufficientemente suffragata dal dato biblico? In questa distinzione Calvino segue Agostino di Ippona, il quale sosteneva questo principio nella sua lotta contro i donatisti, fondandosi sulla parabola delle zizzanie (Mt 13,24-31). Questa nozione gli permette di prendere le distanze dal cattolicesimo romano, avvicinandosi a Lutero e altri riformatori che avevano già ipotizzato queste due realtà.
Tracciare una linea di demarcazione fra eletti e reprobi, facendo dipendere il favore divino dalle qualità umane cozzava contro la dottrina della predestinazione e dell’elezione. D’altronde, il dilagare della Riforma sia nel suo aspetto magistrale che nelle sue forme più radicali, poneva la questione di come identificare la vera chiesa. Calvino ritenne sufficiente, per tale identificazione, due criteri minimi con cui valutare le varie denominazioni cristiane:
“Ovunque riscontriamo la Parola di Dio esser predicata con purezza e ascoltata, i sacramenti essere amministrati secondo l’istituzione di Cristo, non deve sussistere alcun dubbio che qui vi sia la chiesa” (IV, 1,9).
Per Calvino, quindi, non è la qualità dei suoi membri ma la presenza dei mezzi di grazia autorizzati che costituisce una vera chiesa. Il Riformatore sosteneva che la Scrittura imponeva uno specifico ordinamento relativo alla chiesa. Questa è rivestita di autorità spirituale ma non al livello raggiunto dalla chiesa cattolica medievale. Inoltre la sua autorità non contrasta con quella civile: il magistrato civile non è mai assoggettato alla chiesa; potere civile e religioso sono complementari, non opposti o contrapposti.
Per tornare alla questione della legittimità delle categorie di invisibile e visibile applicate alla realtà ecclesiale, c’è da considerare che esiste una correlazione tra spirituale e materiale, tra fede e battesimo (At 8,12), tra potenza dello Spirito e predicazione (1Co 2,4-5), dunque la chiesa è già una realtà spirituale e storica al tempo stesso (2Pt 1,4). Chi fa parte della chiesa non entra forse in contatto con il Signore (At 11,24)? Da notare che le categorie visibile e invisibile nella Scrittura non vengono riferite alla chiesa, bensì a Cristo e alla sua opera (Col 1,16). La chiesa del NT non è mai ipotizzata come realtà invisibile. Le varie chiese operavano in un contesto storico ben preciso e la loro opera, sebbene spirituale, era ben visibile e aveva risvolti materiali (si veda la cura dei bisognosi e dei poveri, l’accoglienza reciproca e tutte le varie opere di carità).
Forse per questo Calvino affianca ai concetti di chiesa visibile e invisibile l’idea di chiesa come madre, tant’è che qualche studioso vi ha trovato singolari e sorprendenti affinità con la concezione cattolica di Chiesa quale madre dei credenti:
“affinché non solo fossero nutriti dal ministero di lei in età infantile ma affinché essa eserciti una cura materna costante nel guidarli sino al raggiungimento della maturità, anzi della meta finale della fede. Non è lecito infatti scindere queste due realtà, che Dio ha congiunte: essere la Chiesa madre di tutti coloro di cui egli è padre” (IV,1,1).
L’idea di chiesa come “madre” rappresenta un novum nel pensiero ecclesiologico di Calvino; infatti esso non è presente nelle prime edizioni dell’Istituzione. Forse mutua tale idea dalla tradizione patristica. Abbiamo visto come essa fosse presente in Cipriano di Cartagine e in Agostino di Ippona. Anche in Lutero ritroviamo simili nozioni (si veda il Grande Catechismo del 1529 e il Commentario della Lettera ai Galati del 1535). In Calvino ritroviamo lo stesso concetto nella Lettera a Sadoleto del 1539, forse come replica alle istanze cattoliche, le quali legavano la maternità della chiesa alla mariologia e al sacerdozio in termini di potere più che di servizio. In realtà, se si analizza il dato biblico specie in Paolo, si evince come la nozione di “madre” applicata alla chiesa si riferisce ad una maternità spirituale, ossia la vera madre di tutte le chiese locali è la chiesa celeste. Infatti se si assume l’idea di “madre” in termini teologici si rischia di fare della chiesa la mediatrice della salvezza o di considerarla come l’esclusivo canale delle benedizioni divine. Si finirebbe per pensare che essa non sarebbe il luogo dell’azione dello Spirito Santo, ma la collaboratrice de iure di Dio e intermediaria istituzionale tra Cristo e il mondo. Quasi che la chiesa fosse un prolungamento dell’opera di Cristo e depositaria dello Spirito. Ma la chiesa non va divinizzata. Essa non può determinare né garantire la presenza dello Spirito; è semmai lo Spirito che deve produrre la chiesa e non viceversa (da notare che questa è la concezione della chiesa cattolica romana).
Per ovviare a tale rischio si deve articolare il rapporto divino/umano in modo da accentuare la dimensione spirituale facendo sì che la vita della chiesa dipenda dallo Spirito. Calvino, infatti, afferma:
“Se il fondamento della Chiesa è rappresentato dalla dottrina che ci hanno lasciata i profeti e gli apostoli, occorre che tale dottrina risulti certa prima che la Chiesa cominci ad esistere. Non si tratta di cavillare dicendo sebbene la Chiesa tragga la sua origine e la sua fonte dalla parola di Dio, permarrà, tuttavia, sempre il dubbio riguardo alla apostolicità e profeticità di una dottrina, fintantoché la Chiesa non sia intervenuta. Se la Chiesa cristiana in ogni tempo è stata fondata sulla predicazione degli Apostoli e sui libri dei Profeti ciò significa che la validità di questa dottrina ha preceduto la Chiesa, la quale su di essa è edificata; così come le fondamenta precedono l’edificio” (I,7,2)
Da dire che nel NT non esiste una correlazione tra paternità divina e maternità ecclesiale: la generazione spirituale deriva dall’azione della Parola e dello Spirito, che ne sono i veri artefici.
Sulla stessa linea di chiesa divina e umana, di eletti e reprobi, la chiesa per Calvino è un corpo misto. Essa sarà sempre un insieme di buoni e cattivi e resterà imperfetta fino alla fine dei tempi. In questa insistenza si scorge la necessità di fronteggiare la riforma radicale la quale concepisce la chiesa come comunità di santi.
Nel far questo Calvino sembra recuperare l’idea di mediazione tanto cara ai cattolici. Il bisogno di collegare l’azione divina con quella umana finisce per affidare ai ministeri della chiesa una funzione troppo preminente. Si scorge qui la tensione di coniugare la santità della chiesa (Ef 5,27), la santità degli eletti (Ef 1,4; Col 3,12; 1Pt 2,5.9) con la realtà che essa presenta. Calvino propendeva per una chiesa confessante e non multitudinista? Certo, la Scrittura presenta la chiesa come una realtà di santi, tracciando una linea di demarcazione tra gli appartenenti ad essa e gli estranei (1Tm 3,15; 1Co 5,12; cfr. At 2,37-47; Ef 2,19-22). Per Calvino la parabola della zizzania non insegna a lasciare coesistere buoni e cattivi nella chiesa perché in quel brano il campo non è la chiesa bensì il mondo: è nel mondo che esistono buoni e cattivi, ma nella chiesa vi devono essere solo i buoni, altrimenti la storia della redenzione verrebbe ad essere privata della sua forza e della sua continuità. Che senso ha militare in una chiesa se si è ancora avvolti nei propri peccati?
Il pensiero di Calvino sulla chiesa quale campo misto risulta, allora, piuttosto ambiguo. Forse tale dilemma si può risolvere collocando l’ecclesiologia di Calvino nel quadro sociale del tempo ove si tendeva ad identificare la chiesa con la società. Ma per meglio comprendere l’ecclesiologia di Calvino bisogna rifarsi alla sua idea di AT e NT. Egli riteneva vi fosse una stretta corrispondenza tra i due testamenti e che la distinzione fosse una mera questione di amministrazione. Infatti egli vedeva la chiesa già nel popolo di Israele. Con ciò non si vuol dire che Calvino non avesse chiara la superiorità della nuova alleanza così come testimoniata nel NT. Si tratta di articolare gli elementi di continuità e discontinuità tra i due testamenti.
Si deve ammettere l’esistenza di due alleanze parallele (cfr. Gal 4,22-31): i due figli di Abramo rappresentano i due patti già all’interno dell’AT; ciò significa che pur essendo figli di Abramo si può nascere “secondo la carne” o “in virtù della promessa”. Paolo non esita ad affermare che non basta essere israeliti per entrare nella promessa (Rm 9,6-13). Questo Calvino lo spiega molto bene affrontando il tema della predestinazione nella sua Istituzione. La Scrittura distingue a più riprese due alleanze: una è “antica” (Eb 8,13; 2Co 3,14; cfr. Rm 7,6) o “prima” (Eb 9,1.18). La venuta del Signore sottolinea senza ambiguità l’inadeguatezza dell’antica alleanza (Eb 8,13). Solo l’alleanza stipulata dal sangue di Cristo (Eb 9,12-14; 10,19.29; 12,24; 13,12.20) costituisce la piena realizzazione delle promesse (Ger 31,31-34).