Lutero e il “pecca fortiter”

Lutero e il “pecca fortiter”

Una delle frasi più controverse di Lutero è contenuta in una lettera scritta dal Riformatore dalla Wartburg a Melantone e illustra bene la solidità delle sue convinzioni teologiche:

“Sii pure peccatore, pecca coraggiosamente, ma ancor più coraggiosamente confida e rallegrati in Cristo”[1].

Quel pecca fortiter fu considerato “urtantissimo” da commentatori cattolici come Grisar perché “invece di parlare, di fonte ai peccati, di un intimo pentimento, di sentimenti d’umiliazione e di penitenza, non entra più in gioco, se non il rimettersi presuntuoso ai soli meriti di Cristo; il peccato perdeva così davanti agli occhi dei credenti ogni carattere di bruttezza”[2].

Sarebbe interessante sapere come avrebbe reagito Lutero all’accusa di presunzione: è presunzione “rimettersi ai soliti meriti di Cristo”? Forse, a differenza di quanto si potrebbe pensare, Lutero non avrebbe ricusato del tutto quel termine. Nella totale inopia in cui si sentiva cacciato dal suo peccato, pure si sentiva molto ricco dell’amore di Cristo, e, in un certo senso almeno, sentiva di poter presumere la sua salvezza grazie ad esso. In ogni caso, però, la famigerata affermazione del pecca fortiter gli costò molte critiche, durante tutto il corso dei secoli, perché essa viene citata per dimostrare che Lutero era un po’ matto, un esaltato, oltre che uno che si era messo fuori dell’ortodossia; senza contare che la versione corrente (pecca “assai”, cioè in fondo: pecca quanto ti pare, e quindi puoi peccare quanto ti pare; anzi, meglio ancora: più pecchi meglio è), scavalcando a piè pari il valore del termine latino per attestarsi sul faux ami del termine italiano più vicino per assonanza (pecca “forte”), perde la pregnanza del paradosso (è il peccatore che deve avere il coraggio di credere), e così fa scomparire del tutto, alla vista di chi legge, la sostanza teologica che il paradosso vuole mettere in luce (Dio salva il peccatore che ha il coraggio di riconoscersi tale).

Dunque, il monaco scomunicato dalla chiesa – e dal 26 maggio anche fuorilegge nell’impero, sulla base del decreto firmato a Worms dopo la sua partenza – dal chiuso del castello si esprimeva con molta potenza, sia che desse conto delle sue debolezze, sia che proclamasse le sue “presuntuose” certezze. Vale la pena di osservare da vicino questo brano famoso e maltrattato, per confermarne il valore di “parola d’ordine” che ebbe tutta la vita per Lutero, ma anche per inquadrarlo nel momento storico e soprattutto per capirlo meglio attraverso il contesto della lettera in cui è inserito.

Di solto si dimentica, infatti – e forse proprio per il valore emblematico che giustamente viene loro attribuito – che quelle parole furono scritte alla fine di un’analisi sulla questione delle “due specie”, di come cioè l’eucaristia dovesse essere amministrata ai fedeli in un culto che si voleva riformare, abbandonando della messa le parti giudicate non coerenti con la Scrittura e in particolare con il racconto dell’istituzione nell’Ultima Cena. Oltre all’abolizione delle messe cosiddette “private”, cioè celebrate senza la presenza di fedeli, e oltre all’introduzione della lingua parlata, soprattutto nella liturgia eucaristica, la cosa più urgente parve subito la necessità di distribuire anche il vino ai laici. Dovettero passare ancora un paio di mesi prima che a Wittenberg si cominciasse a sperimentare questa novità, ma Lutero si era posto il problema già molto tempo avanti: nel 1519, nel Sermone sul venerabile sacramento del santo vero corpo di Cristo, poi nel 1520, nel Sermone sul Nuovo Testamento, cioè la santa messa, e soprattutto nella Cattività babilonese. Il 1 agosto del 1521, scrivendo per precisare la sua posizione su alcuni punti che evidentemente costituivano ancora un problema per Melantone, ripete ciò che aveva già scritto prima, e cioè che non si può definire “peccato” la Santa Cena presa sotto una sola specie: “Non affermo che sia peccato, né che non lo sia, perché la Scrittura non ci dà indicazioni stringenti”; il che non elimina, però, le considerazioni che vanno nel senso di preferire di gran lunga una distribuzione di entrambe le specie, perché “mi sembra molto opportuno ristabilire l’istituzione di Cristo”. la solita conformità alla Scrittura; e poiché Cristo distribuì a tutti sia pane sia vino, così dovrebbe essere fatto.

Lutero sta parlando non di questioni di principio, astratte, ma della sua chiesa e dei suoi concittadini: “Preghiamo il Signore che ci dia presto il suo Spirito in misura maggiore. Mi aspetto infatti che il Signore visiti presto la Germania, come merita la sua incredulità, empietà, e il suo odio per l’evangelo”. Visitet, nel senso di visitare per esaminare e castigare, naturalmente; ma, appunto, anche per concedere ampliorem spiritum suum. Ed è qui che si inserisce l’esortazione a Melantone: uno Spirito “più abbondante” è quello che serve per credere di essere salvati nonostante i peccati, quelli veri (non la scelta di un modo o di un altro di distribuire l’eucaristia), quelli che schiacciano e fanno dubitare: “Se proclami la grazia, proclama una grazia vera, non finta”.

Il testo è: si gratiae praedicator es. La questione di far “predicare” Melantone è una questione a parte, e in questo caso il termine praedicator, vale, sì, per indicare la funzione specifica che pure in parte egli già svolgeva, ma soprattutto si riferisce alla condizione costitutiva di ogni credente: se credi nella grazia, l’annunzi. Dunque, se la grazia in cui credi è vera (non è una chiacchiera, non è costata poco: “Con le ricchezze della gloria di Dio abbiamo conosciuto l’agnello che prende su di sé i peccati del mondo. Ti sembra un prezzo di riscatto troppo basso, quello pagato per i nostri peccati da tale straordinario agnello?”), non può essere elargita per i peccati da nulla, o addirittura inventati, ficti: “Dio non salva peccatori finti”; oppure secondo un’edizione critica. ficte, quindi, “peccatori per finta”, o: “non lo fa per finta, di salvare i peccatori”. Comunque sia, il senso è chiaro e severo: Melantone, il movimento per la riforma, la Germania tutta devono chiedere “più Spirito” per smettere di attardarsi su questioni secondarie, ancor più per trovare il coraggio di revocare fiducia alle proprie opere, per riconoscere l’Agnello e accettare l’evangelo della salvezza gratuita, per abbandonare, insomma, l’incredulità, l’empietà, l’odio per l’evangelo. E questo è appunto l’odio per l’evangelo: non una carenza di religiosità, o di scrupoli, ma la fede nelle opere.  In un’altra lettera, di alcuni mesi più tardi, a Spalatino scrisse: “Come nessun peccato è peccato per chi crede, così nessuna opera buona è opera buona per chi non crede”. Perché le opere sono tutte peccato: “Dobbiamo peccare per forza, finché restiamo qui; questa vita non è la dimora della giustizia”; è questa la ragione per cui esto peccator et pecca fortiter. Sei peccatore, e lo devi essere, lo devi riconoscere, ma puoi farlo con coraggio, perché “con più coraggio ancora puoi aver fede e rallegrati in Cristo, che ha vinto il peccato, la morte e il mondo”. Non illuderti di sfuggire alla tua condizione di peccato, ma aspetta “come dice Pietro, nuovi cieli e una terra nuova, in cui abita la giustizia”. Il saluto che chiude la lettera è: Ora fortiter, etiam fortissimus peccator.

l’articolo è tratto da S. Nitti, Abituarsi alla libertà. Lutero alla Wartburg, ed. Claudiana 2008.

[1] “esto peccator et pecca foriter, sed fortius fide et gaude in Christo”, lettera del 1 agosto 1521, n. 424.

[2] H. Grisar, Lutero. La sua vita e le sue opere, SEI, Torino, 1956.