Lutero e l’impostazione classica della dottrina della giustificazione

Lutero e l’impostazione classica della dottrina della giustificazione

  1. Un duello con la Scrittura.

È ormai famoso il passo in cui Lutero riflette sulla Lettera ai Romani e dà inizio alla Riforma. Egli scrisse queste parole circa trent’anni dopo i fatti ai quali si riferiscono e molti studiosi del riformatore si sono domandati se queste righe siano una fonte attendibile per ricostruire fedelmente la dinamica di quella che fu una vera e propria “riscoperta dell’evangelo”. Riportiamo il testo:

“Ero stato afferrato da un desiderio, certo singolare, di conoscere Paolo nella Lettera ai Romani, ma ciò che fino a quel momento aveva costituito un ostacolo […] era […] una sola parola, che si trovava nel capitolo primo: “la giustizia di Dio è rivelata in esso (cioè nell’Evangelo)”. Odiavo infatti quest’espressione, “giustizia di Dio”, perché l’uso e la consuetudine di tutti i dottori [in teologia] mi avevano insegnato a intenderla filosoficamente, come giustizia formale o attiva (così la chiamano), per la quale Dio è giusto e punisce i peccatori ingiusti.

Io però, che mi sentivo davanti a Dio peccatore con la coscienza molto inquieta, benché vivessi come un monaco irreprensibile, […] odiavo questo Dio giusto che punisce i peccatori e mi indignavo contro Dio, pronunciando contro di lui se non proprio una silenziosa bestemmia, quanto meno una forte protesta, dicendo: “Come se non bastasse che dei poveri peccatori eternamente perduti a motivo del peccato originale siano oppressi da ogni male per mezzo della legge del Decalogo, ecco che Dio aggiunge dolore a dolore dirigendo contr di noi la sua giustizia e la sua ira anche per mezzo dell’Evangelo”. Così ero fuori di me, con l’animo infuriato e sconvolto. E tuttavia continuavo a sollecitare Paolo a proposito di quel passo, senza dargli tregua, desiderando ardentemente sapere che cosa egli volesse dire.

Finché, avendo Dio compassione di me, mentre meditavo giorno e notte ed esaminavo il concatenamento delle parole seguenti “La giustizia di Dio è rivelata in esso [cioè nell’Evangelo], come è scritto: Il giusto vivrà per fede”, cominciai a comprendere che la giustizia di Dio è quella grazie alla quale il giusto vive per il dono di Dio, cioè per la fede, e che la frase: “la giustizia di Dio è rivelata mediante l’evangelo” va intesa nel senso della giustizia passiva, grazie alla quale Dio misericordioso ci giustifica per mezzo della fede, come è scritto: “il giusto vivrà per fede”. A questo punto mi sentii letteralmente rinascere e mi sembrò di entrare direttamente in paradiso, le cui porte si erano spalancate”[1].

Queste parole, in ogni caso, esse permettono di cogliere, in maniera chiara, alcuni degli elementi decisivi della comprensione della giustificazione da parte del Lutero maturo. Il teologo tedesco Eberhard Jȕngel ha sottolineato, riferendosi a questo testo, che la Riforma ha avuto origine “dall’affaticarsi teologicamente responsabile non solo intorno ad un unico versetto, bensì intorno a un’unica parola”[2].

Le parole di Lutero mettono in luce, innanzitutto, la prospettiva dalla quale ci si allontana: la giustizia di Dio non deve essere intesa in senso distributivo, cioè premiare i buoni e condannare i malvagi. Tale concezione, alla quale non mancano certo punti di aggancio biblici e tradizionali, è ricordata da Lutero come fonte di autentica disperazione, in quanto egli averte che nemmeno una vita monastica irreprensibile è in gradi di rendere un individuo giusto di fronte al tribunale di Dio.

La nuova lettura di Rm 1,16s, che dischiude al futuro riformatore le porte del paradiso, si muove, almeno per un tratto, sulla linea di Agostino: l’essere umano non ha in sé le forze per vivere secondo le esigenze di Dio ma quest’ultimo elargisce il perdono a chi non se lo merita, per pura benignità, per grazia, appunto.

 

  1. Il complemento di specificazione.

Nel proporre la propria interpretazione, Lutero rivolge particolare attenzione al significato da attribuire al genitivo greco θεοῦ in Rm 1,17 (“la giustizia di Dio è rivelata in esso [cioè nell’Evangelo]”)[3].  Riportiamo il versetto in greco e nella traduzione della Nuova Riveduta:

δικαιοσύνη γὰρ θεοῦ ἐν αὐτῷ ἀποκαλύπτεται ἐκ πίστεως εἰς πίστιν, καθὼς γέγραπται· Ὁ δὲ δίκαιος ἐκ πίστεως ζήσεται.

perché la giustizia di Dio è rivelata in esso di fede in fede, come sta scritto: «Il giusto vivrà per fede».

Se, nell’interpretazione tradizionale, il complemento di specificazione θεοῦ (di Dio) veniva inteso come genitivo soggettivo, Lutero lo interpreta come genitivo oggettivo. Nel primo caso, parlando di giustizia di Dio si fa riferimento alla giustizia propria di Dio, quella in base alla quale il Dio giusto giudicherebbe tutti gli individui, decidendo della salvezza dei giusti e della condanna degli ingiusti; nel secondo caso, qualora il genitivo venga inteso in senso oggettivo, la giustizia di Dio sarebbe quella che Dio attribuisce, per grazia, al peccatore: non una giustizia che giudica chi vi è sottoposto, ma una giustizia che rende giusto chi la riceve.

Lutero pone in rilievo il genitivo oggettivo, traducendo δικαιοσύνη θεοῦ con “giustizia, che vale di fronte a Dio” in Rm 1,17; 3,21.25.26; 10,23; 2Cor 5,21. Gli esegeti osservano che, almeno in certi casi (per esempio Rm 3,5.25.26 e, secondo alcuni, anche il fatidico Rm 1,17), la dimensione soggettiva del genitivo non può essere negata. A onore l vero, si deve dire che anche Lutero è, almeno in parte, consapevole del problema e già nelle lezioni giovanili sull’Epistola ai Romani indica l’esigenza di non contrapporre schematicamente le due letture.

 

  1. Giustizia di Dio: una relazione.

Il problema del carattere del genitivo è considerato sia dagli esegeti, sia dagli studiosi di Lutero edai teologi sistematici, un nodo centrale per la comprensione dell’autentico significato dell’espressione paolina “giustizia di Dio”. Eberhard Jȕngel rileva che è sostanzialmente impossibile non presupporre, sempre e comunque, il genitivo soggettivo[4]. Questo non significa, tuttavia, tornare ad una visione nella quale il Dio giusto esercita una giustizia di tipo distributivo, cioè ricompensa coloro che osservano la legge e punisce quanti la infrangono. Dio stesso è “giusto”, la “giustizia” lo costituisce nella sua identità eterna, nel suo essere. Tale giustizia, tuttavia, coincide con la potenza che salva per pura grazia e non può dunque essere intesa come puro e semplice premio per i buoni e punizione per i malvagi.

L’esegesi recente ha dimostrato che l’uso paolino dell’espressione “giustizia di Dio” si radica nella testimonianza anticotestamentaria e nella sua interpretazione giudaica; inoltre, ha messo in luce che, in tale contesto, la giustizia di Dio non è quella che opera secondo il principio “a ciascuno il suo” e, di conseguenza, Dio è giusto non perché riconosce i meriti di alcuni e condanna le colpe di altri. Dio è giusto, perché nello strutturare il proprio rapporto con Israele si mostra come colui che è solidale e fedele. Dal momento che l’identità di Dio come giusto si manifesta in questa relazione con Israele, ne consegue che la giustizia di Dio ha una natura relazionale. Anche Paolo, parlando di “giustizia di Dio”, ha in mente quanto è stato appena detto: per l’apostolo, Dio è giusto perché rimane fedele all’alleanza con Israele ed è, quindi, fedele a se stesso. Dio è giusto perché, accogliendo il peccatore perduto, rimane conforme al proprio essere. Cogliendo questo aspetto, Lutero è riuscito a collocare il discorso paolino sulla giustizia di Dio sul piano dell’evangelo, cioè sul piano della buona notizia che Dio rivolge agli esseri umani. Ma proprio in questo punto, la dimensione soggettiva e la dimensione oggettiva del genitivo θεοῦ (di Dio, Rm 1,17) si incontrano e si integrano a vicenda.

Se la giustizia di Dio è una grandezza relazionale, Dio è giusto in quanto comunica la propria giustizia nel rapporto con l’essere umano peccatore. La giustizia propria di Dio si esercita come giustizia donata: Dio è giusto donando giustizia, giustificando il peccatore. La giustizia di Dio deve essere intesa in modo dinamico come un dono, che, tuttavia, non può mai essere separato dal donatore. La giustizia donata non diventa mai possesso dell’essere umano ma resta legata all’azione di Dio. Un testo come Fil. 3,9[5] esprime con chiarezza l’idea: Dio dona una giustizia che non solo non può diventare “propria” dell’essere umano ma anzi ne è l’esatto contrario (cfr. Rm 10,3)[6]. La giustizia propria dell’essere umano è quella in base alle opere, cioè derivante da ciò che l’essere umano fa: essa è “propria” in quanto l’opera determina colui che la compie, lo costituisce nella sua identità. Analogamente, la giustizia divina qualifica l’identità di Dio stesso ma, in quanto relazionale, essa è comunicata all’essere umano come giustizia “altra” (iustitia aliena). In questo consiste la giustificazione, nel fatto che Dio comunica, dona all’essere umano una giustizia che non è propria di quest’ultimo.

Lo spazio esistenziale e teologico nel quale la giustizia di Dio diviene giustizia donata all’essere umano è costituito dalla fede. Ciò ha permesso a Paolo e alla Riforma di parlare direttamente di giustificazione per fede.

 

  1. La fede che giustifica.

La domanda che si pone ora è: quale fede giustifica? La risposta di Lutero in proposito è molto chiara: la fede che giustifica non coincide né con la fides quae creditur, intesa come semplice adesione a contenuti dottrinali, né con la fides qua creditur, intesa come convinzione personale o autoconsapevolezza spirituale del credente[7]. In entrambi i casi, la fede mantiene un carattere evidente di opera umana che si contrappone all’opera di Dio. Con queste obiezioni, Lutero non vuole negare che il credere implichi anche l’assenso a determinati contenuti e l’accettazione personale ed esistenziale del messaggio evangelico da parte dell’essere umano. Ciò che sta a cuore del riformatore è sottolineare che fede è, innanzitutto, opera della parola di Dio in noi. La dimensione intellettiva e psicologica ne fa parte, ma la fede non è solo né anzitutto un fatto intellettivo e psicologico.

La fede che giustifica, e quindi che salva, non deve essere considerata, in primo luogo, dal punto di vista dell’essere umano credente. Al centro dell’evento della fede è l’azione di Dio in Gesù Cristo. questo non smentisce uno degli elementi basilari ella comprensione che la Riforma ha della fede, ovvero la dimensione fiduciale[8]. Credere significa porre ogni fiducia nell’ascolto di una parola che viene dal di fuori e che afferma che io sono perdonato, indipendentemente da quello che vedo e da quello che sento psicologicamente riguardo a me stesso. La fede accetta che Dio operi in Gesù Cristo per grazia soltanto: essa accetta con fiducia che Dio sia Dio. Nella fede come la intende la Riforma, l’accento non cade sulle risonanze soggettive della grazia, che pure esistono, ma sull’accoglimento dell’oggettività della grazia. Essa presenta Dio come egli è in se stesso, come Dio che, nel suo essere trinitario, è “per noi”.

La fiducia riposta nella parola che annuncia il perdono di Dio non dà al credente la possibilità di appropriarsi di tale parola; essa rimane, in quanto esterna e annunciata, irriducibilmente non disponibile per l’essere umano. Ciò significa che parola e fede sono e rimangono, in ultima analisi, possibilità di Dio e non possibilità dell’uomo, neanche dell’uomo religioso.

Nell’elaborazione teologica della Riforma l’evento della giustificazione coincide con la persona di Cristo e il suo messaggio, precisamente l’evangelo, la lieta notizia. Considerando che, secondo Paolo, la giustificazione avviene “senza le opere della legge” (Rm 3,28), si pone in termini radicali il problema del rapporto tra tali opere, e dunque la legge, e il lieto messaggio della salvezza per grazia mediante la fede. Lutero, questo è importante, indica di solito con il termine “opere” (che può essere seguito o meno dal complemento di specificazione “della legge”) l’insieme delle possibilità umane, siano esse morali o, più ampiamente, religiose. Nel contesto biblico, la “legge” corrisponde, secondo l’interpretazione del riformatore, alla dimensione imperativa della parola di Dio, che va dai Dieci Comandamenti alla parenesi neotestamentaria.

In questo quadro, la risposta di Lutero e della Riforma alla domanda su quanto nell’evento della salvezza, dipende dalla grazia di Dio e quanto dall’opera umana, si muove, senza mezzi termini, in un’unica direzione. La legge non può salvare e, in ogni caso, l’essere umano si mostra incapace di adempierla. La salvezza è per fede soltanto, “senza le opere” (Rm 4,6), “senza la legge” (Rm 3,21), “senza le opere della legge” (Rm 3,28). Ma qual è, allora, il senso delle opere e della legge.

Lutero, in un celebre passaggio de La libertà del cristiano, aiuta a rispondere al quesito:

“Sebbene l’uomo, interiormente, secondo l’anima, sia bastevolmente giustificato per mezzo della fede, ed abbia tutto quello che deve avere, salvo che in questa fede e sufficienza deve crescere sempre fino all’altra vita; egli resta nondimeno in questa vita corporale in terra, e deve governare il proprio corpo ed avere relazioni con gli uomini. Ora, qui hanno inizio le opere. Qui non deve stare ozioso […]. Ma gli altri, che si figurano di diventare pii con opere, non badano affatto alla correzione, ma guardano soltanto all’opera e quando ne hanno fatte molte, e grandi, pensano che han fatto bene e son diventati pii […]. Fanno una grande pazzia e non comprendono che cosa sono la vita e la fede cristiana quelli che vogliono, senza fede, per mezzo delle opere, diventare pii e beati”[9].

Le opere non vengono dunque cancellate né relativizzate: esse però non hanno un significato meritorio né una funzione salvifica. Il tema della salvezza va trattato esclusivamente nell’ambito dell’annuncio dell’evangelo della grazia, che agisce da sola e indipendentemente da ogni altro fattore. È fondamentale, nell’impostazione luterana e poi protestante della dottrina della giustificazione, difendere con la massima energia tale primato e tale indipendenza della grazia che opera mediante la fede. Detto questo, la grazia e la fede, che salvano da sole, sono accompagnate dalle opere e dunque, de facto, non sono mai sole[10]. Ciò non significa, sia detto ancora una volta, che le opere aggiungono qualcosa alla grazia di Dio; esse, tuttavia, rappresentano una conseguenza della fede. Lutero dice chiaramente che è pazzia pensare di diventare buoni e pii di fronte a Dio compiendo opere buone; con altrettanta chiarezza, egli dirà che l’uomo buono, reso tale dalla parola di grazia che Dio gli rivolge, non può non compiere buone opere. In questo senso fede e opere possono dirsi tra loro strettamente connesse.

l’articolo è tratto da F. Ferrario – W. Jourdan, Per grazia soltanto, ed. Claudiana, Torino, 2005

 

[1] Testo originale in Weimarer Ausgabe (WA) 54, p. 186s

[2] E. Jȕngel, Unterwegs zur Sache, Tubinga, Mohr, 1972, p. 65.

[3] Nelle declinazioni dei sostantivi delle lingue classiche, il genitivo è il caso che esprime il complemento di specificazione (per esempio, il cortile di casa). In alcune circostanze è possibile distinguere un genitivo soggettivo da un genitivo oggettivo; nel primo caso, il genitivo indica che la caratteristica del sostantivo specificato deve essere attribuita alla specificazione, nel secondo caso, il genitivo indica che la caratteristica del sostantivo specificato deve essere riferita ad altri rispetto alla specificazione. Esempio: nell’espressione “la paura dei soldati”, posiamo parlare di genitivo soggettivo se intendiamo affermare che siano i soldati ad avere paura di fronte ai rischi della battaglia. Al contrario, parliamo di genitivo oggettivo, se intendiamo sostenere che siano i soldati a incutere paura ad altre persone.

[4] E. Jȕngel, Il vangelo della giustificazione come centro della fede cristiana, Brescia, Queriniana, 2000, p. 87.

[5] Fil. 3,9 “di essere trovato in lui non con una giustizia mia, derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede”.

[6] Rm 10,3 “Perché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio.”.

[7] La tradizione teologica, riconoscendo la difficoltà di dare una definizione univoca di “fede”, ha ritenuto opportuno delucidare questo concetto rilevandone le diverse sfaccettature. A tal proposito, si è parlato di fides quae credtur (fede che è creduta), riferendosi con tali espressioni a quell’aspetto della fede che consiste nell’accettare – nel “tener per vero”, come diceva Lutero – l’insieme dei contenuti veicolati dalla Bibbia (a proposito dei quali si parla anche di “fede storica” fides historica) o dai credi ecclesiali. La fides quae creditur insiste dunque sulla dimensione cognitiva dell’esperienza di fede; per distinguere da ciò quegli aspetti della fede che implicano la struttura del convincimento personale del soggetto, la tradizione cristiana ha parlato di fides qua creditur (fede mediante la quale si crede). La fides qua creditur consiste nella dinamica soggettiva, psicologica o esistenziale del proprio rapporto con Dio, nella consapevolezza che il credente ha della propria esperienza di fede.

[8] Lutero considera la comprensione di questo aspetto molto importante. Per evidenziarlo adeguatamente, egli ricorre nei suoi scritti alla distinzione tra certitudo (certezza) e securitas (sicumera). La certitudo indica quell’atteggiamento credente che si fonda integralmente sulla parola esterna e da essa costantemente dipende; la securitas, al contrario, esprime la fatale presunzione di un’appropriazione della parola esterna al fine di trasformarla in una possibilità religiosa dell’essere umano.

[9] M. Lutero, La libertà del cristiano, a cura di G. Miegge, Torino, Claudiana, 1993, pp. 48-51.

[10][10] In più momenti della loro storia, le chiese sorte dalla Riforma avvertirono la necessità di chiarire, mettendole per iscrittole loro posizioni teologiche. Testi quali la Confessione di Augusta (1530) o gli Articoli di Smalcalda (1537-38) rispondevano esattamente a questa esigenza: esporre chiaramente ai propri interlocutori le convinzioni di fede che guidavano la critica alla chiesa romana. Le confessioni di fede della Riforma, o quelle elaborate successivamente, costituiscono la formulazione dottrinale più organica e autorevole della fede evangelica. In genere, esse sono nate dall’esigenza di testimoniare tale fede in dialogo critico con il cattolicesimo, a volte, invece, intendono dirimere controversie interne al protestantesimo. È il caso della Formula di concordia (1577) che intende porre fine ad un’aspra polemica interna al luteranesimo tedesco. La Formula di concordia è suddivisa in due parti principali: l’Epitome, cioè una sorta di compendio degli argomenti trattati, e la Solida declaratio, una trattazione più ampia e dettagliata delle questioni in discussione. Per quanto concerne il rapporto tra fede e opere, è importante rilevare quanto viene espresso nella Solida declaratio. Il documento, citando Lutero, dice: “Bene conveniunt et sunt connexa inseparabiliter fides et opera, sed sola fides est quae apprehendit benedictionem sine operibus, et tamen numquam est sola” (La fede e le opere vanno di pari passo e sono inseparabilmente unite, ma è solo la fede che coglie la benedizione, indipendentemente dalle opere, e tuttavia essa non è mai sola). Come già si è rilevato, il primato della fede in ordine alla salvezza rimane indiscusso. Tuttavia, il fatto che sia la sola fede a cogliere la benedizione di Dio, non significa che la fede sia “da sola”: “sola fides numquam sola est” (la sola fede non è mai da sola). Ciò significa che le opere, che non portano salvezza, saranno sempre indissolubilmente legate alla fede, sola speranza dell’essere umano. Cfr. “Formula di concordia: Solida declaratio”, (1577), in R. Fabbri (a cura di), Confessioni di fede delle chiese cristiane, Bologna, Ed. Dehoniane, 1996, p. 483.