Storicità dei Patriarchi: vera o presunta?

STORICITÀ DEI PATRIARCHI: VERA O PRESUNTA?
A. SECONDO IL METODO STORICO-CRITICO.

1. PREMESSA.
La storia delle origini di Israele è dominata dalla figura di Abramo, considerato come il padre del popolo eletto (Is 51,2). Anche i cristiani lo considerano come loro padre nella fede (Rm 4,11). I musulmani chiamano Abramo el-Khalil, l’amico di Dio.
In questa trattazione seguiremo dapprima le risultanze del metodo storico-critico, poi analizzeremo le conclusioni di studiosi che non si avvalgono del suddetto metodo.

2. IL PERIODO PATRIARCALE.
Tra la storia primitiva (Ge 1-11) e l’esodo dall’Egitto (Es 1-5) si leggono nel libro della Genesi una quarantina di capitoli (Ge 11,10-50,26) riguardanti gli antenati del popolo di Israele, chiamati patriarchi: Abramo (Ge 11,10-25,10), Isacco e Giacobbe (Ge 25,11-36,43) e Giuseppe (Ge 37-50). La loro storia ha un’importanza capitale per il popolo di Dio, giacché spiega i presupposti che condizionano l’alleanza conclusa da Dio con il popolo di Israele insediatosi nella terra di Canaan. Nei racconti dei patriarchi emergono i temi principali della religione di Israele: il culto di un unico Dio, la rivelazione, l’elezione, la promessa, il dono della terra.
I capitoli concernenti i patriarchi propriamente detti (Abramo, Isacco e Giacobbe) descrivono i viaggi e le migrazioni dei padri, le loro occupazioni, le vicende familiari dei loro matrimoni e dei loro decessi, come anche le relazioni con i vicini. Si tratta della storia dei clan di un gruppo saldamente legato da vincoli di sangue. Le narrazioni sono brevi ed episodiche, connesse con vari luoghi cultuali della Palestina . Abbondano le genealogie, le etimologie popolari di nomi di luoghi e di persone, i racconti doppi. Il complesso sembra essere una cucitura di aneddoti autonomi. Frequenti sono gli interventi di Dio, che si manifesta per fare delle promesse. Il filo conduttore che unisce gli episodi è la promessa di un figlio o di una numerosa discendenza e l’assicurazione del possesso della terra di Canaan. È messo in rilievo l’atteggiamento religioso dei patriarchi. La storia di Giuseppe presenta una struttura unitaria e continua, e l’azione di Dio si rivela attraverso il gioco normale delle cause naturali.
3. LE DIVERSE TRADIZIONI SCRITTE.
Il complesso narrativo concernente i patriarchi, nella sua forma attuale, fu fissato per iscritto dopo l’esilio di Babilonia. Avendo a disposizione diverse fonti scritte (J, E, P), il redattore finale fece una cernita di episodi privilegiando la tradizione jahvista, inserendo gli aneddoti nella cronologia sacerdotale e giustapponendo i vari racconti senza la preoccupazione di armonizzarli tra loro.
a) La tradizione J.
Nel X sec. a.C. l’autore jahvista fu il primo a raccogliere le tradizioni esistenti allo stato orale e a dare loro un’interpretazione religiosa. Volendo legittimare l’istituto monarchico in un momento in cui il passaggio a questa nuova forma di governo implicava seri problemi religiosi, l’autore riunì materiali preesistenti di origine e scopo diversi, provenienti dal nord e dal sud del paese, inserendoli in un quadro unitario e applicandoli a tutto il popolo di Israele grazie all’unità realizzata dalla monarchia: la dinastia davidica infatti era ritenuta come la realizzazione delle promesse fatte da Dio ai patriarchi ed insieme l’istituzione che doveva procurare la salvezza delle nazioni.
b) Le tradizioni E e P.
Nell’VIII sec. a.C. l’autore elohista, appartenente al regno del nord, raccolse e fissò per iscritto le tradizioni patriarcali, specialmente quelle riguardanti la Palestina centrale, con lo scopo di legittimare l’alleanza del Sinai minacciata dal sincretismo cananeo. L’autore presenta ai suoi contemporanei la figura dei patriarchi come modelli di fedeltà al Dio dell’alleanza. Durante l’esilio babilonese i sacerdoti ed i teologi di Gerusalemme interpretarono a loro modo le antiche tradizioni patriarcali con l’intento di infondere fiducia negli esiliati sommersi dall’apatia e dalla disperazione. Le promesse della numerosa discendenza e del possesso della terra si sarebbero realizzate ancora una volta, perché la parola di Dio si compie in modo infallibile.
c) Sfondo antico.
Al tempo della loro fissazione per iscritto ed al momento della loro redazione finale, le tradizioni patriarcali furono sottoposte ad un evidente processo di attualizzazione. I popoli vicini e avversari dei patriarchi furono identificati con le tribù ed i popoli sottomessi al re Davide: aramei, moabiti, ammoniti, edomiti, filistei. Le tradizioni di Abramo, che fino ad allora si erano conservate in seno al gruppo tribale della Palestina meridionale, furono integrate nel patrimonio narrativo di tutto il popolo di Israele. In questo modo Abramo divenne il capostipite della genealogia dei patriarchi. Non è escluso che la migrazione di Abramo dalla Mesopotamia, con le tappe a Sichem e a Betel, rappresenti una rivendicazione delle tradizioni concernenti Giacobbe-Israele in favore del capostipite.
Tuttavia l’attualizzazione delle tradizioni, avvenuta al tempo di Davide e nei secoli successivi, non intaccò la sostanziale fondatezza delle tradizioni preesistenti. All’interno della tradizione scritta si nota una fondamentale convergenza circa la trama e la natura dei racconti patriarcali. Il contesto religioso e sociale nel quale si svolgono gli eventi patriarcali è molto diverso da quello dell’Israele storico. I clan patriarcali sono dei gruppi mobili che non possiedono terre. Il potere del padre è assoluto; la religione del Dio della promessa e del Dio dei padri è molto diversa dallo jahvismo mosaico e dalla religione popolare cananea. I santuari frequentati dai patriarchi non comprendono luoghi di culto sorti dopo l’occupazione della Palestina (Ghilgal/Galgala, Silo, Mizpa, Gerusalemme), e si identificano con i santuari riprovati del Deuteronomio. I patriarchi sono considerati dal popolo di Israele non come eroi popolari e profetici o capi carismatici, ma come padri e antenati del popolo di Dio (cfr. Os 12 e la conoscenza dei vari episodi patriarcali del ciclo di Giacobbe). Quali discendenti dei patriarchi, gli ebrei si sentono coinvolti nelle vicende e nelle promesse che formano l’oggetto dei racconti della Genesi.
4. DATAZIONE DELLE TRADIZIONI.
La formazione delle tradizioni orali concernenti i patriarchi si situa nel II millennio a.C., prima dell’insediamento degli ebrei in Canaan (XIII sec.). È vero che nessun testo extra-biblico e nessuna testimonianza archeologica confermano esplicitamente o implicitamente l’esistenza storica dei singoli patriarchi. Non si trovano fuori della Bibbia allusioni a persone, gruppi o tribù appartenenti all’epoca patriarcale. Né si riscontrano nella Genesi nomi, date o avvenimenti che permettano di datare con precisione l’epoca storica degli antenati di Israele. Non è di aiuto nemmeno Ge 14, che presenta diverse difficoltà letterarie e storiche. Tuttavia si può affermare che i nomi propri contenuti nella Genesi, la supposta geografia, i costumi praticati, la storia posteriore delle tribù, inducono a situare i patriarchi tra i secc. XIX e XIV del II millennio a.C. Alcuni studiosi sono in favore del sec. XIX (R. de Vaux), altri in favore del sec. XIV (C.H. Gordon).
I nomi dei patriarchi ricorrono nei testi mesopotamici della prima metà del II millennio (Mari, Chagar, Bazar) e nei testi egiziani di esecrazione. Sono nomi semitici che non appartengono al consueto tipo dell’onomastica accadica e richiamano più antichi nomi israelitici di persona. Si deve ammettere che si è storicamente conservata la memoria dei portatori di questi nomi. I costumi patriarcali e gli usi giuridici supposti nei racconti della Genesi, per es. lo statuto del concubinaggio e dell’adozione, sono in rapporto con i testi scoperti a Mari e a Nuzu (sec. XV) e con le leggi hittite (sec. XV). Però questi testi riportano delle concezioni giuridiche che erano diffuse in tutto l’Antico Oriente, dall’inizio del II millennio fino all’epoca neobabilonese, perciò non offrono argomenti sicuri per datare con precisione i racconti della Genesi.

5. LA LORO ORIGINE.
Le antiche tradizioni orali facevano riferimento ai capi dei singoli clan seminomadi, viventi indipendentemente l’uno dall’altro. La cultura era quella dei pastori di piccolo bestiame, interessati alle transumanze che davano la possibilità di utilizzare pozzi e terreni stepposi. La religione era quella del Dio dei padri, fondata sul culto di un Dio personale che prometteva la fecondità, la discendenza e il possesso della terra nel contesto di un patto al quale il clan doveva rimanere fedele. In un secondo tempo queste figure di capi furono confuse con le tribù, che li considerarono come antenati; le tradizioni dei capi furono ricamate con i tratti caratteristici dei singoli gruppi. In seguito gli antenati e le tribù che si sedentizzarono furono localizzati in vari centri: nella Mesopotamia intorno a Carran (Harran), patria della parentela dei tre patriarchi, nel Galaad, al di là del Giordano, nella Palestina centrale (Sichem, Betel), nella Palestina meridionale (Mamre, Ebron) e nel Negheb (Bersabea). Le tradizioni si arricchirono di tratti culturali presi dai popoli vicini, assumedo forme letterarie, giuridiche e religiose di stampo amorritico, hurrita e cananeo. Il Dio dei padri viene identificato con ‘El-Elyon ‘El-Roy, ‘El-Olam e vengono adottate le forme cultuali dei vari santuari cananei. Si sviluppano le etimologie popolari, le eziologie locali e le leggende cultuali. Col passare del tempo sorgono cicli letterari nei quali si strutturano in modo organico le antiche tradizioni tribali. I rapporti esistenti tra i singoli clan ed i vari gruppi allargati si esprimono mediante la procedura della genealogia. In questo modo da Abramo si giunge fino agli eroi eponimi delle tribù di Israele.
I racconti patriarcali non sono biografie ma la raccolta di svariati materiali sorti autonomamente, poi riuniti in cicli ed in tradizioni durante un lungo periodo di trasmissione orale. Intorno a dei capi clanici, della cui sostanziale storicità non è ragionevole dubitare, si sono sviluppate saghe e leggende il cui valore deve essere soppesato in ogni singolo caso. Perciò non è possibile ricostruire in dettaglio la figura dei patriarchi. Questi personaggi potevano essere addirittura contemporanei, come viene attestato dalla loro origine, dagli itinerari, dai luoghi visitati e dai motivi delle narrazioni spesso analoghe e talvolta parallele.

B. ALTERNATIVE AL METODO STORICO-CRITICO.

6. ATTINENZA AL DATO BIBLICO.
Dalla mole delle argomentazioni trattate e dalla disparità delle conclusioni a cui giungono i vari studiosi, scaturisce che la prima domanda da porsi è se i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe siano personaggi storici. Gli studiosi che aderiscono alla teoria evoluzionista affermano che la discendenza dei gruppi etnici o delle nazioni da un unico uomo è, a qualsiasi livello storiografico, pura fantasia. Sostenendo tale tesi, urge chiedersi come apparvero queste figure patriarcali, problema questo che comporta due elementi: uno relativo all’origine dei fatti e dei personaggi nella narrazione, e l’altro all’origine dei nomi.
Comune alla maggior parte delle spiegazioni della scuola critica è la tesi secondo cui gli avvenimenti e le descrizioni di questi personaggi scaturiscono da una rappresentazione tardiva e idealizzata che il popolo di Israele fece di sé durante il periodo monarchico. Gli Israeliti erano fortemente consapevoli di essere diversi da tutti gli altri popoli e, quindi, si riconobbero in questi racconti.
Per quanto riguarda l’origine dei nomi, non esiste unanimità di vedute. Secondo alcuni, si tratta di tribù e la relazione di consanguineità fra questi personaggi riflette proprio le relazioni tribali. Gli spostamenti attribuiti ai patriarchi rappresentano i dislocamenti delle tribù e le loro migrazioni. Il massimo di storicità ammesso da questa teoria è che Abramo potrebbe essere stato il capo di una tribù (visir) che da lui prese il nome. Nonostante ciò dissolva la storicità dei patriarchi in senso tradizionale, da molti questa viene considerata una posizione ultraconservatrice, perché contempla ancora una base leggendaria degli avvenimenti. Rappresentante di questa posizione fu Dillman, considerato uno studioso conservatore.
Esiste una seconda teoria molto più estremistica, i cui propugnatori si ritrovano perlopiù tra le file dei critici wellhausiani, fra cui spicca Stade, che la elaborò. Secondo lui, i nomi di Abramo, Isacco e Giacobbe non avevano in origine niente a che fare con la storia genealogica degli ebrei, ma erano i nomi di personaggi cananei generati da alcune semidivinità cananaiche, che le tribù cananee consideravano loro antenati e che adoravano come tali in svariati luoghi. Quando occupò la terra di Canaan, Israele iniziò ad adorare nei luighi dove i cananei avevano reso per lungo tempo i loro culti, includendo nel proprio pantheon Abramo, Isacco e Giacobbe. Gradualmente, sentendosi a proprio agio in Canaan, gli israeliti iniziarono presto a sentire che quei luoghi sacri appartenevano anche a loro e che, pertanto, gli dei che vi si adoravano dovevano essere ebrei, non cananei. Per esprimere questa nuova coscienza e creare una sorta di diritto legale suoi luoghi, che avesse una qualche base storica, gli Israeliti escogitarono la leggenda secondo cui, in un periodo precedente, i propri antenati Abramo, Isacco e Giacobbe erano vissuti in Terra Santa, dove avevano consacrato quei luoghi. Così nel racconto genesiaco ad Abramo venne assegnato Ebron, ad Isacco Beer-Sceba, a Giacobbe Betel.
Una terza scuola di pensiero ha cercato di spiegare questi nomi in base a precedenti nomi babilonesi. Sara sarebbe la dea di Aran, Abramo un dio dello stresso luogo, mentre Labano il dio Luna. Le quattro mogli di Isacco rappresenterebbero le quattro fasi lunari; i dodici figli di Giacobbe i dodici mesi dell’anno; i sette figli di Lea i sette giorni della settimana; il numero di uomini con cui Abramo sconfisse gli invasori, 318, sarebbe il numero di giorni dell’anno lunare.
a) La storicità dei Patriarchi.
In risposta a queste diverse concezioni, si deve innanzitutto ribadire che la storicità dei patriarchi non può essere considerata una leggenda. Dal momento che la religione veterotestamentaria è basata su eventi, non è vero che si ricava la sgessa utilità da tutti questi personaggi, grazie alle lezioni desunte dalle loro storie perché, in definitiva, è la storia effettiva che conta. Se, secondo il principio pelagiano, tali leggende avessero lo scopo di trarre insegnamenti religiosi e morali, allora la storicità non sarebbe più di sostanziale importanza. Si potrebbe imparare le stesse lezioni da personaggi leggendari o mitici. Ma, secondo la Bibbia, essi sono attori reali del dramma della redenzione, l’inizio vero e proprio del popolo di Dio. Se i patriarchi non fossero delle figure storiche, e ciononostante volessimo attribuire loro una qualche verosimiglianza, sarebbe difficile spiegare perché questo dovrebbe iniziare con Mosè. Se prima di lui non si può parlare di storicità, allora il processo redentivo, fin dalle sue prime battute, si perde nelle nebbie della preistoria.
Per quanto riguarda la teoria dell’autoidealizzazione, essa non tiene conto di tutti i fatti. È lecito aspettarsi a priori delle somiglianze tra antenati e discendenti, ma la somiglianza ipotizzata su di una tale base non riunisce assolutamente gli elementi della descrizione in modo completo. La somiglianza di un popolo ed un suo patriarca è maggiore nel caso di Giacobbe, mentre non è così accentuata per gli altri due. Inoltre esistono delle differenze fra i patriarchi e Israele. Abramo raggiunse livelli di gran lunga superiori rispetto ad Israele. La fede, infatti, non fu mai una caratteristica di Israele come nazione. Wellhausen ha osservato che, nei documenti jahvisti ed elohisti, i patriarchi vengono raffigurati come se fossero controllati eccessivamente dalle rispettive mogli. Queste donne, secondo lo studioso, sembrano dotate di molto più carattere dei loro mariti. Sarebbe lecito chiedersi come i bellicosi Israeliti del primo periodo monarchico avrebbero potuto trovare i propri ideali espressi da tali personaggi: viene detto che Abramo sposò la sua sorellastra, azione questa tutt’altro che abituale nell’Israele degli ultimi tempi.
Neppure i nomi trovano una spiegazione soddisfacente nella personificazione delle tribù. Giacobbe è un nome regolarmente impiegato per indicare il popolo, mentre Isacco è utilizzato raramente in questo senso. Abramo non ricorre mai come nome tribale. Wellhausen lo riconosce ma adduce a pretesto che Abramo era una creazione della fantasia poetica e, come tale, fu oggetto di tutte le idealizzazioni possibili tanto da soppiantare Isacco e Giacobbe. L’etimologia mitologico-babilonese dei nomi non ha portato a nessun risultato decisivo. Lo ammette perfino Gunkel, il sostenitore più brillante dell’influenza babilonese sull’AT, riconoscendo che tutti i tentativi volti a dimostrare la derivazione etimologica dei nomi dei patriarchi dal pantheon babilonese on sono risolutivi. Nell’AT non c’è la benché minima traccia di un qualche culto riservato ai patriarchi; al contrario, viene posto più volte in evidenza che essi non erano oggetto di culto: “Il tuo primo progenitore ha peccato, i tuoi mediatori si sono ribellati a me” (Is 43,27); “Tuttavia, tu sei nostro padre; poiché Abraamo non sa chi siamo e Israele non ci riconosce. Tu, SIGNORE, sei nostro padre, il tuo nome, in ogni tempo, è Redentore nostro.” (Is 63,16).
Giacobbe significa “colui che prende per il calcagno o che soppianta”; Israele vuole dire “colui che lotta con Dio”. Eppure i due nomi continuano ad essere usati interscambiabilmente nella narrazione biblica. Non è così nel caso di Abramo: Abramo fu un nuovo nome conferito per esprimere un cambiamento nella sfera oggettiva, un destino assegnato da Dio.
7. IL CASO DI ABRAMO.
Il nome occorre nella Bibbia sotto due forme: ‘Abhrām fino a Gn 18,5; da indi in poi ‘Abhrāhām e sotto la duplice forma si ritrova pure nell’assiro: A-bi-ra-mu “mio padre è eccelso”, e A-ba-ra-ha-am, quest’ultima in una lettera della prima dinastia babilonese (sec. XXIII a.C.). E appunto al tempo di quella dinastia viveva Abramo, essendo probabilmente contemporaneo di Ḫammurabi il sesto e più grande re di quella dinastia.
a) Il racconto biblico.
Secondo il racconto del Gn 11,26-32, Abramo nacque nella città di ‘Ūr, l’Uru dei Caldei, la moderna Mugheir (el-Muqayyar), da Tare, padre di tre figli: A., Nachor ed Aran. Dei primi anni di A. non si dice altro. Adulto sposò Sarai (ebraico Ṡāray, nome poi mutato in ebraico Ṡārāh), che era sterile. Tare un giorno prese A. suo figlio, Lot suo nipote e Sarai, moglie di A., e partì da ‘Ūr dei Caldei, dirigendosi verso il paese di Canaan. Giunti in Haran, città nel Nord della Mesopotamia, dove la dea Luna (Sīn) riceveva speciali onori, vi si fermarono; ed ivi morì Tare nell’età di 205 anni. Allora, (ma, secondo At 8,3, prima che lasciasse ‘Ūr), la voce del Signore si fece udire ad Abramo: “Vattene dalla tua terra, dalla tua patria e dalla tua casa paterna, verso la regione che ti mostrerò. Io ti farò divenire una grande nazione e ti benedirò: ingrandirò il tuo nome e sarai una benedizione. Benedirò chi ti benedice e maledirò chi ti maledice, e per te saranno benedette tutte le nazioni della terra” (Gn 22,1s.). Il servo fedele lascia la Caldea, lascia Haran per una terra che ancor non gli è rivelata, e arriva a Sichem, nella Palestina. In Sichem il Signore gli manifestò esser quella la terra promessa: “Alla tua progenie darò questa terra” Ivi, ed anche in Bethel, Abramo innalzò un altare al Signore che gli era apparso. Ma una grande carestia lo costrinse a discendere in Egitto, dove, per i depravati costumi locali, trovandosi in pericolo di perdere e la sposa e la vita, consigliò Sarai, nel caso che si tentasse d’incettarla per il Faraone, di dichiararsi semplicemente sua sorella. Sarai era difatti sua sorella, perché figlia dello stesso padre, quantunque non della stessa madre” (22, 12). Per giudicare rettamente di questo consiglio, bisognerebbe conoscere tutte le circostanze del fatto: forse, la sua fiducia in Dio gli fece sperare che l’onore della sua Sarai sarebbe stato protetto, come avvenne. Alcuni critici, poi, hanno veduto nel matrimonio con una sorella, ma non figlia della stessa madre, una sopravvivenza di un primitivo sistema matriarcale. Ritornato in Canaan, Abramo fu costretto a separarsi da Lot, che andò ad abitare con la sua famiglia in Sodoma.
A questo punto del racconto biblico Abramo è messo in relazione con la storia profana d’Oriente (Gen 24): Amrafel (Amrāphel), re di Sennaar (Babilonia), Arioch (‘Aryōkh), re di Ellasar, Thadal (Tidh‛al), re dei Goi e Chodorlahomor (Kĕdhārlā‛ōmer), re di Elam, capo della spedizione, entrano in Canaan a guerreggiare i re della Pentapoli, ribellatisi a Chodorlahomor. Sodoma cade nelle loro mani, e gli abitanti, compreso Lot, vengono trasportati prigionieri. Abramo con 318 dei suoi più fedeli servi, piomba di notte, improvvisamente, sul nemico, lo mette in fuga, libera i prigionieri e s’impadronisce di un ricco bottino, di cui però non vuole usufruire. A lui vittorioso viene incontro il gran sacerdote dell’Altissimo, Melchisedec, re di Salem (antico nome di Gerusalemme). A. lo riconosce superiore e gli offre le sue decime. I documenti cuneiformi dissepolti in Oriente hanno confermata la storicità di questa pagina della Bibbia. Infatti: 1° ci dànno i nomi dei quattro re orientali; Amraphel è, secondo l’opinione comune e più probabile degli assiriologi, lo stesso che Ḫammurabi, già sopra menzionato. Arioch o Eri-aku è la forma sumerica di Arad-Sin, re di Larsa (Ellasar), di cui copiosi documenti ci fanno conoscere il regno e le gesta. Tadal ci viene innanzi sotto la forma di Tudḥalias, re di Ḫatti. Il nome di Chodorlahomor non s’è ancora trovato nella sua interezza; ma sono frequenti i due elementi Kudur “servo” e Lagamar “dio” di marca schiettamente elamita, variamente combinati in nomi proprî; 2° ci narrano come il re Kudur-Naḫḫunte conquistò Babilonia circa il 2280 a. C., e come il celebre Ḫammurabi, della dinastia babilonese, non scosse il giogo elamita se non l’anno 30° del suo regno; 3° ci fan sapere che già qualche secolo prima di Hammurabi i re di Akkad (Babilonia) avevano spinto le loro conquiste in Occidente fino al Mediterraneo (v. Zeitschrift f. alttestamentliche Wissenschaft, XXXVI, 1916, pp. 65-71; Biblica, VIII, 1907, pp. 350-357).Seguono diverse apparizioni in cui il Signore promette ad A. che avrà un figlio “delle sue viscere” ed una numerosa prosapia. Gli viene anche manifestata la futura storia del popolo ebraico, che avrebbe dominato dal fiume d’Egitto all’Eufrate. La nascita d’Ismaele, che ottiene da Agar, serva di Sarai, rallegra il vegliardo, a cui Iddio muta il nome di Abramo in quello di Abraham (ebraico), perché “padre di una folla di popoli”, e quello di Ṡārāy in Šārāh (ebraico) “principessa”. Per ubbidire al Signore, Abramo circoncide se stesso, Ismaele e tutti gli altri della sua famiglia: la circoncisione d’ora innanzi è un gravissimo precetto religioso per tutti i discendenti del patriarca. Iddio gli annunzia la prossima nascita di un figlio: ma Abramo è vecchio, e così Sara, la quale, udendo, sorride. Ma il Signore benedice Abramo e vuole che, dal “sorriso” di Sara, il figlio si chiami Isacco (Yiṣḥāq “egli ride”). Il Signore vuole distruggere Sodoma e Gomorra e Abramo supplica per le città delittuose: Jahvè è disposto a cedere purché vi siano dieci giusti. Ma il castigo di Dio piomba inesorabile sulle città condannate, ché solo Lot merita di essere salvato.
Un episodio simile a quello presso il Faraone d’Egitto ebbe luogo in Gerara: simile consiglio a Sara e simile effetto. Il parallelismo di alcuni elementi delle due narrazioni non sembra tuttavia sufficiente per autorizzarne l’identificazione. Diverso è il luogo e il tempo dei due episodî; la somiglianza nelle circostanze deriva da consuetudini comuni. Grande gioia provò il vegliardo quando nacque Isacco, e gran festa fece quando fu divezzato (Gen., XXI, 8). Ma la gioia fu presto turbata dalle gelosie delle due donne (Agar e Sara) per la convivenza dei figliuoli. Cedendo al volere di Sara, Abramo ordinò che Agar ed Ismaele si allontanassero dalla sua tenda. Ciò del resto era conforme al contemporaneo codice di Ḫammurabi, in cui si legge (col. 28, riga 60 seg.): “Se il padre, mentre vive, ai figli che gli avrà dato la serva non avrà detto: ‘figli miei’; e poscia il padre venga a morire, i figli della serva non possono dividere l’eredità della casa paterna con i figli della padrona”. Ma ecco un altro episodio, celebre anche nella letteratura e nell’arte. Il Signore comanda ad Abramo d’immolare Isacco, già adolescente, nel luogo che gli avrebbe mostrato. Abramo cela allo stesso suo figliuolo il disegno di Dio. Ed Isacco porta sulle sue spalle le legna per il sacrificio: “Ecco”, disse Isacco, “il fuoco e le legna; ma dov’è la vittima per l’olocausto?”. “Dio provvederà” fu la risposta del padre. Ma, mentre egli alza il ferro sul capo del figlio, una voce dal cielo: “No”, gli grida “non portar la mano contro il fanciullo”; e un montone, che s’offre allora alla vista, ne prende il posto. Ed il Signore (22, 16 seg.): “In fede mia ti giuro (gli disse) che, in premio d’aver tu fatto tal cosa, ti colmerò di benedizioni e farò numerosissima la tua progenie come le stelle del cielo e l’arena del mare, e la tua discendenza occuperà la porta dei tuoi nemici; e nella tua discendenza si diranno benedette tutte le genti della terra, in premio di aver tu ascoltato la mia voce”. Seguono altri episodî forti di colore orientale: la morte di Sara, lo sposalizio d’Isacco e un’altra figliolanza di Abramo, che, “vecchio e sazio di vivere”, muore (Gen 25, 7 seg.) in età di 175 anni. Il suo corpo fu seppellito dai suoi figli Isacco ed Ismaele nella stessa caverna di Macpela in Hebron, dove già riposava Sara.
b) Storicità.
La storicità della persona e dei fatti di Abramo è stata oggetto di vivaci discussioni. Si volle negarla e vi si giunse per tre vie: la prima è la mitologica. A. sarebbe in origine un’antichissima divinità, ridotta poi al più modesto rango di un eroe dal severo monoteismo jahvistico. Si segnalarono in questa interpretazione specialmente i panbabilonisti (Winckler, Stucken, Jensen, ecc.), che videro nella storia di Abramo i due miti astrali del sole (Šamaš) e di Venere (Ištar) generati dalla luna (Sīn)), l’astro adorato in ‘Ūr ed in Haran. La seconda via è quella della personificazione della tribù o nazione. I viaggi di Abramo starebbero a rappresentare le migrazioni della primitiva tribù degli Ebrei dall’Oriente verso i paesi mediterranei (Meyer). Terza via, infine, la saga. Nella persona di Abramo si sarebbero cristallizzate antiche storie di tempi favolosi, che si raccontavano presso gli Ebrei, come altre simili storie si raccontavano presso altri popoli (Gunkel). Ma la sostanza stessa del racconto biblico, per non dir altro, sta contro la prima e la seconda ipotesi, ora del resto cadute in discredito anche presso i critici più avanzati.
Le azioni che si raccontano di Abramo non eccedono la comune misura dell’uomo, e non se ne tacciono le debolezze. Qualche cosa di straordinario sembra avere soltanto il fatto d’arme del capo 14, che pure si riduce ad un attacco notturno d’una retroguardia. Abramo non è neanche una figura di eroe, come Sansone, Davide, Elia e simili. Le sue azioni, poi sono narrate in maniera troppo circostanziata, minuta, intonata alla vita privata di un uomo, rispettabile sì, ma insomma non influente, perché vi si possa vedere l’incarnazione di un popolo e della sua storia. Anche la terza opinione (delle saghe) mal si accorda con la sobrietà con la quale è tratteggiata la figura di Abramo, senza quegli strepitosi fatti, di che sogliono essere piene le epopee nazionali. Egli non fa un solo miracolo. La sua vita è quella della tenda: vita semplice e patriarcale, molto differente da quella, per es., dei re d’Israele. Il codice di Ḫammurabi, come abbiamo già accennato, illumina singolarmente qualche tratto dei costumi patriarcali. I documenti assiro-babilonesi, informandoci dei più minuti particolari di quei tempi remoti, dimostrano l’insussistenza dei presupposti su cui quei critici basano le loro teorie.
Delle varie fonti, di cui secondo l’ipotesi “documentaria” risulta composto il Pentateuco, i critici indipendenti si accordano nell’assegnare Gen 12, 4 b-5; 13, 6 aba; 11 b; 12 aba; 16, i a; 3; 15; 16; 18; 19, 29; 21, 1 b; 2 b-5; 23; 25, 7-11 a; 12-17; 19-20. Maggiore incertezza vi è nel distinguere, delle parti che rimangono, quanto spetti a ciascuno degli altri due documenti, J (fonte Jahvista) ed E (Elohista): tanto più che, specialmente riguardo ad J, si postulano varie recensioni, o, per lo meno, stadî di sviluppo. In ogni modo, E non compare prima del c. XV; e a questa fonte si assegnano, inoltre, il c. 20 (o 1-17), gran parte dei capi 21 (a partire dal v. 8) e 22 (1-14). Il c. 14 non viene assegnato con sicurezza a nessuna di queste fonti.
8. CONCLUSIONI.
Come si evince dal saggio in questione, a seconda della preferenza accordata alla metodologia di analisi, si protenderà per l’una o l’altra soluzione. Entrambe fanno riferimento al dato biblico, cambia la tipologia di approccio: più scientifico l’uno, più letterale l’altro. Il metodo storico-critico da due secoli a questa parte è il tipo di analisi scientifica privilegiata negli studi teologici, ma il suo grande difetto è di spersonalizzare il dato biblico, rendendolo quasi identico ad un reperto archeologico, correndo il rischio di privare la parola di Dio della sua forza. L’approccio più letteralista, al contrario, con l’intento di dare vita alla parola di Dio corre il rischio di farle dire ciò che in realtà non dice. Un approccio che voglia tenere in considerazione entrambe le metodologie, non deve disdegnare i risultati dell’analisi storico-critica senza dimenticare, però, che l’oggetto dell’indagine (la Bibbia) resta, al di là delle parole umane, la parola di Dio. Vale in questo caso, come negli altri, il giudizio espresso in merito da un teologo riformato: “…non siamo obbligati a seguire la vecchia sistematica o il nuovo principio evolutivo (il metodo storico-critico). Da quest’ultimo dobbiamo solo imparare a porre maggiormente l’accento sul nesso storico tra le diverse verità depositate nelle Scritture, senza per questo venir meno nella nostra convinzione della genesi e dello sviluppo soprannaturale (Dio) di quel corpo di cui fanno parte” .
In definitiva, la preistoria di Israele si intreccia con la storia delle popolazioni che abitavano la Palestina e l’Egitto, in un insieme di commistioni fra tribù e clan diversi ma che comunque avevano contatti fra loro. Nomi, luoghi, leggende, eventi posso essere confluiti insieme fino a dare ad Israele una identità come popolo. L’importante è che alla base di tali sommovimenti ci sia stata l’intuizione che Dio muoveva il tutto. Questa è la fede di Israele, questa è la nostra fede.