La funzione teologica della dottrina della predestinazione.

La funzione teologica della dottrina della predestinazione.[1]

  1. Da un approccio storico-salvifico ad un approccio scolastico

Non è corretto dire che Calvino abbia sviluppato un sistema nel senso proprio della parola, le sue idee religiose, come vengono presentate dall’Istituzione della religione cristiana del 1559, sono organizzate sistematicamente sulla base di considerazione pedagogiche; esse non son tuttavia derivare sistematicamente sulla base di un principio-guida di natura speculativa. Calvino non prendeva in considerazione una distinzione metodologica fondamentale tra esposizione biblica e teologia sistematica, che sarebbe diventata tipica del pensiero riformato successivo.

Nel periodo successivo alla sua morte, però, si imposte un nuovo interesse per il metodo. I teologi riformati, eredi delle idee religiose di Calvino, si trovarono sotto una pressione crescente nel difendere le loro idee nei confronti sia dei loro oppositori luterani, sia cattolici. Questa battaglia fu così accanita che teologi del calibro di Teodoro di Beza, Lambert Daneau, Pietro Martire Vermigli e Girolamo Zanchi furono pronti ad utilizzare ogni arma a loro disposizione per assicurare almeno la loro sopravvivenza nei confronti di quella offensiva. La ragione, tenuta d’occhio con un certo sospetto da Calvino, venne ora associata come un alleato. Divenne sempre più importante dimostrare la perfetta strutturazione e la coerenza interna del calvinismo. Come risultato, molti scrittori calvinisti alla ricerca di un metodo, si volsero agli scritti del tardo Rinascimento nella speranza di trovarvi delle indicazioni al fine di assicurare alla propria teologia dei fondamenti razionali più solidi.

Si possono individuare quattro caratteristiche di questo nuovo approccio alla teologia.

  1. La teologia cristiana viene presentata come un sistema logicamente coerente e razionalmente difendibile, derivato da deduzioni sillogistiche fondate su assiomi riconosciuti.
  2. La ragione umana si vede assegnato il ruolo principale nell’indagine e nella difesa della teologia cristiana.
  3. La teologia viene intesa come se fosse costruita sulla filosofia aristotelica, e in particolare sulle concezioni aristoteliche riguardanti la natura del metodo; gli autori riformati posteriori sono meglio identificati come teologi filosofici anziché biblici.
  4. La teologia si interessa di problemi metafisici e speculativi, specialmente di quelli che riguardano la natura di Dio, la sua volontà per l’umanità, la creazione, e la dottrina della predestinazione.

Com’è possibile che un movimento inizialmente del tutto ostile alla scolastica in generale, e all’aristotelismo in particolare, sia giunto a produrre una scolastica aristotelica così presto, pochi anni dopo la morte del suo fondatore? E perché si è arrivati a sottolineare così fortemente la dottrina della predestinazione? Per rispondere a queste domande è necessario prendere in considerazione le teorie del metodo a cui si rifanno autori calvinisti come Beza e Zanchi.

Per tutto il tardo Rinascimento, l’università di Padova si distinse dalle altre università che avevano accettato l’impostazione dell’umanesimo come una fortezza dell’aristotelismo; non si trattava, però, dell’Aristotele della scolastica medievale, interessato in primo luogo agli argomenti metafisici, ma dell’Aristotele interessato ai problemi di metodo. Per gli autori della scuola di Padova, fra cui eccelleva Giacomo Zabarella (1532-1589), era possibile elaborare un metodo universale, applicabile in linea di principio ad ogni scienza; questo metodo doveva essere identificato con la logica. Era inevitabile che la logica aristotelica, con la sua forte accentuazione del ruolo dei sillogismi, avrebbe acquistato la massima importanza. Se la teologia era una scienza essa, almeno in teoria, doveva essere in grado di conformarsi alle regole generali di metodo prescritte per tutte le discipline dalla scuola patavina. Quindi, nella sua prolusione ai corsi di Heidelberg, Zanchi sottolineò che la teologia doveva essere in grado di porre le sue fondamenta e stabilire i suoi principi con la stessa esattezza della logica e della matematica.

Dagli anni sessanta del ‘500, l’aristotelismo si era affermato largamente in tutte le università europee inclusi molti centri maggiori collegati fino a quel momento con la Riforma. Filippo Melantone aveva introdotto lo studio di Aristotele nei piani di studio a Wittenberg, come Beza aveva fatto a Ginevra. Tuttavia le università luterane erano generalmente riluttanti a riammettere Aristotele; fu soltanto nella seconda decade del XVII sec. che l’aristotelismo venne considerato accettabile in questi centri.

L’influsso di Aristotele sulla teologia riformata degli ultimi decenni del XVI sec. è evidente: sillogismi formali di tipo deduttivo si ritrovano dappertutto, in particolate negli scritti di Zanchi. Il punto di partenza della teologia è costituito dai principi generali, non da uno specifico evento storico. Si deve sottolineare che questi principi generali non devono essere intesi come puramente razionali; essi sono piuttosto le espressioni della rivelazione divina. È questa evoluzione che ci permette di comprendere la nuova importanza che fu assegnata alla dottrina della predestinazione.

  1. La doppia predestinazione.

Mentre Calvino adotta un approccio alla teologia di tipo induttivo e analitico, mettendo a fuoco lo specifico avvenimento storico di Gesù Cristo e da qui muovendosi nell’esame delle sue implicazioni, Beza utilizza un approccio di tipo deduttivo e sintetico che prende l’avvio da principi generali e procede nel dedurre le loro conseguenze per la teologia cristiana (è probabile che Beza abbia ripreso queste idee direttamente dagli scritti dell’aristotelico patavino Pietro Pomponazzi[2]; rimane tuttavia aperta l’eventualità che questa metodologia patavina possa essere stata mediata da Vermigli o da Zanchi). Questi principi generali – i decreti divini – sono determinati in riferimento alla dottrina della predestinazione, che assunse quindi lo status di un principio-guida, condizionando così la collocazione e la formulazione di dottrine ben diverse tra loro come quella della Trinità, delle due nature di Cristo, della giustificazione per fede e della natura dei sacramenti. La realtà della predestinazione viene intesa come implicante una decisione o un decreto divino a predestinare; ed è questo decreto divino della predestinazione che assume una posizione-guida nel contesto della dottrina di Dio in Beza. È interessante notare che, mentre Calvino parla della predestinazione come un aspetto incidentale della dottrina della salvezza, Teodoro di Beza segue Tommaso d’Aquino nel considerarlo un aspetto della dottrina di Dio. Beza sottolinea che i decreti divini non sono una costruzione speculativa dell’immaginazione umana, ma devono essere desunti dalla Scrittura; il modo in cui questi decreti sono da essa ricavati, però, porta a trattare la Scrittura come una serie di proposizioni da cui si possono dedurre i decreti divini, anziché come una testimonianza resa all’evento centrale di Gesù Cristo, dal quale inferire la natura della predestinazione.

La centralità della dottrina della predestinazione può essere valutata tenendo presente il famoso Ordo rerum decretarum di Beza, che presenta in forma schematica la sua concezione della natura e dell’esecuzione del decreto divino dell’elezione. Si dimostra che ogni cosa nella storia della salvezza è la logica esecuzione nel tempo dell’”eterno” e immutabile proposito di Dio (propositum eius aeternum et immutabile).

Possiamo esaminare un po’ più a fondo una delle conseguenze più rilevanti di questa evoluzione. Per chi è morto Gesù Cristo? La questione è stata sollevata nella grande controversia sulla predestinazione nel corso del IX sec. quando il monaco benedettino Godescalco di Orbais espose una dottrina della doppia predestinazione simile a quella che in seguito sarà collegata a Calvino e ai suoi seguaci. Seguendo con logica implacabile le implicazioni della sua affermazione che Dio ha predestinato alcuni alla dannazione eterna, godescalco osservò che era del tutto improprio parlare di Cristo come di colui che muore per queste persone; se lo avesse fatto, sarebbe morto invano in quanto il loro destino non ne sarebbe stato toccato. Esitando di fronte alle implicazioni di questa tesi, godescalco sostenne che Cristo era morto soltanto per gli eletti. Il raggio della sua azione redentrice era limitato a quelli che erano predestinati a trarre beneficio dalla sua morte. Molti autori del IX sec. reagirono respingendo questa dottrina, ma essa doveva riemergere nel tardo calvinismo.

Un’analisi della descrizione e distribuzione delle cause della salvezza degli eletti e della distruzione dei reprobi di Beza mete in evidenza questo punto in discussione. Sono soltanto glie letti che traggono beneficio dalla morte di Cristo. Le opere di Vermigli e di Zanchi confermano pienamente il loro accordo su questo punto: soltanto gli eletti possono beneficiare dell’incarnazione, della morte e della risurrezione di Cristo. Si deve sottolineare con forza che in nessun punto dei suoi scritti Calvino ha mai sostenuto che Cristo è morto soltanto per gli eletti; La dottrina calvinista dell’espiazione limitata sembra il risultato, almeno in parte, dell’influenza di questi due autori italiani e della crescente consapevolezza della necessità di collegare assieme elementi teologici non ancora spiegati. Questo serve a ricordare della varietà di fonti sulle quali il calvinismo fu in grado di fondarsi e della elasticità del rapporto che mantenne con Calvino stesso.

  1. Arminio e il sinodo di Dordrecht.

La dottrina della doppia predestinazione assoluta, e il suo corollario logico della espiazione limitata, divise il calvinismo in due fazioni contrapposte specialmente nei Paesi Bassi. Arminio s’impegno con grande vigore, sia sul piano pastorale che metodologico, per modificare la comprensione di Beza della natura e della funzione della predestinazione. I suoi Commenti sono di particolare rilevanza in quanto tendono a riconoscere l’importanza delle considerazioni metodologiche nel determinare i diversi atteggiamenti verso la predestinazione. Per Arminio, l’approccio di Beza alla teologia attraverso la predestinazione è il risultato dell’applicazione di un metodo deduttivo e sintetico; il metodo teologico corretto – egli sostiene – è invece induttivo e analitico:

“Per lungo tempo è stato un principio indiscusso, per quei filosofi che sono maestri di metodo e di ordine, che le scienze teoretiche dovrebbero esprimersi in forma sintetica (ordine compositivo), e invece le scienze pratiche in ordine analitico (vero resolutivo), per cui, dato che la teologia è una scienza pratica, ne consegue che deve adottare il metodo analitico (methodo resolutivo)”

Secondo Arminio, considerare la teologia una scienza teoretica – cioè adottare la procedura di Beza, che qui segue Zabarella – è un grave errore. Una reazione simile contro la dottrina della predestinazione di Beza si può ritrovare nel XVII sec. all’interno dell’Accademia protestante francese di Saumur, sempre per motivi di metodo. Sotto l’influenza di Beza, la logica sillogistica aristotelica era diventata una componente essenziale del piano di studi dell’Accademia di Ginevra. Il rifiuto di Beza di accogliere Pierre Ramus come insegnante nell’Accademia era dovuto alla sua ostilità nei confronti del programma anti-aristotelico di Ramus, evidente nella sua logica. Per quanto il modello aristotelico ginevrino venisse adottato da molte accademie riformate in tutta Europa, la logica di Ramus era insegnata nell’Accademia protestante di Saumur e, sulla base di questa logica che impediva di dedurre il particolare dal generale, accademici salmuriani posteriori, come Mosè Amyraut, sfidarono i fondamenti della dottrina ortodossa della predestinazione. Alla base di queste due sfide a quella dottrina, com’era stata elaborata da Beza, si trova una critica ai presupposti metodologici ereditati dalla scuola patavina, sui quali ci si rese conto che era costruita.

I “rimostranti”, una corrente riformata che condivideva e tesi di Arminio, sostenevano che Cristo è morto per tutti e che ha pienamente meritato la loro salvezza; tuttavia, solo quelli che credono in lui ricevono il beneficio della salvezza. In altre parole, Cristo è morto per tutti, in modo tale che La sua morte è sufficiente ed efficace per tutti coloro che scelgono di rispondergli nella fede. La dottrina della predestinazione subì una nuova interpretazione per riferirsi ad un principio generale di fedeltà: Dio ha predestinato chiunque si rivolge nella fede a Cristo per ricevere la salvezza. Per la maggioranza, tuttavia, la predestinazione aveva un riferimento espressamente individuale; era la decisione divina di eleggere una determinata persona alla vita o alla morte.

Il Sinodo di Dordrecht (1618-19) si riunì per comporre le divisioni all’interno della chiesa riformata dei Paesi Bassi, che avevano origine dalle controversie sulla predestinazione e sulla espiazione limitata. Il risultato del Sinodo è generalmente considerato una vittoria della scuola di Beza. Per quanto, a quell’epoca, l’Olanda dovesse ancora diventare famosa per la coltivazione dei tulipani, il nome di questo fiore in inglese “tulip” può essere utile per memorizzare facilmente i cinque punti approvati dl sinodo:

 

T – Totale depravazione della natura umana.

U – Una elezione incondizionata del singolo.

L – Limitata redenzione: Cristo è morto soltanto per gli eletti.

I – Irresistibile grazia: Dio può attuare quello che ha deciso.

P– Perseveranza dei santi: quelli che Dio elegge non decadranno dalla loro vocazione.

Nel sottolineare che queste posizioni non sono affatto identiche a quelle di Calvino, non si vuole sostenere che il calvinismo successivo abbia distorto le dottrine del suo fondatore. Si intende piuttosto richiamare l’attenzione sulla varierà di fonti alle quali il calvinismo successivo poté collegarsi. È storicamente insostenibile affermare che il calvinismo si sia limitato ad appropriarsi dell’eredità di Calvino; vari altri autori, tra cui Vermigli e Zanchi, fornirono stimoli diversi che vennero utilizzati. Il calvinismo posteriore è un amalgama complesso di elementi che derivano da un buon numero di fonti; Calvino ne rappresenta solo una. La concezione tradizionale del calvinismo può continuare a presentarlo come un movimento che si ricollega soltanto a Calvino, contentandosi della ripetizione delle sue dottrine; lo storico attento agli sviluppi intellettuali, invece, conosce un fenomeno ben diverso – un movimento dinamico e creativo, sensibile agli ultimi sviluppi dei circoli intellettuali, che si è fondato su dottrine di autori riformati diversi da Calvino e si  appropriato (non è chiaro se direttamente da Pomponazzi o indirettamente da Zanchi) di nozioni, sistemi, metodi e forme di ragionamento apparentemente sconosciuti a Calvino, al fine di elaborare un sistema coerente di dottrina cristiana.

 

[1] Questo articolo e quelli che lo hanno preceduto è tratto da A.E. Mc Grath, Giovanni Calvino. Il riformatore e la sua influenza sulla cultura occidentale, Claudiana, Torino 2009

[2] Si noti la sua richiesta a Grataroli, datata 11 agosto 1563 per avere una copia del De naturalium effectuum causis di Pomponazzi, pubblicato dal Grataroli a Basilea nel 1556. Questa richiesta viene interpretata dai curatori come un’approvazione delle tendenze scolastiche di Beza.