Genesi 3: la caduta.

GENESI 3: LA CADUTA
Il peccato di Adamo e la prima promessa
1Or il serpente era il più astuto di tutte le fiere dei campi che l’Eterno DIO aveva fatto, e disse alla donna: «Ha DIO veramente detto: “Non mangiate di tutti gli alberi del giardino”?». 2 E la donna rispose al serpente: «Del frutto degli alberi del giardino ne possiamo mangiare; 3 ma del frutto dell’albero che è in mezzo al giardino DIO ha detto: “Non ne mangiate e non lo toccate, altrimenti morirete”». 4 Allora il serpente disse alla donna: «Voi non morrete affatto; 5 ma DIO sa che nel giorno che ne mangerete, gli occhi vostri si apriranno, e sarete come DIO, conoscendo il bene e il male».
Caduta dell’uomo
6 E la donna vide che l’albero era buono da mangiare, che era piacevole agli occhi e che l’albero era desiderabile per rendere uno intelligente; ed ella prese del suo frutto, ne mangiò e ne diede anche a suo marito che era con lei, ed egli ne mangiò. 7 Allora si apersero gli occhi di ambedue e si accorsero di essere nudi; così cucirono delle foglie di fico e fecero delle cinture per coprirsi.
Giudizio dell’uomo
8 Poi udirono la voce dell’Eterno DIO che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno; e l’uomo e sua moglie si nascosero dalla presenza dell’Eterno DIO fra gli alberi del giardino. 9 Allora l’Eterno DIO chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». 10 Egli rispose: «Ho udito la tua voce nel giardino, e ho avuto paura perché ero nudo, e mi sono nascosto». 11 E DIO disse: «Chi ti ha mostrato che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero del quale io ti avevo comandato di non mangiare?». 12 L’uomo rispose: «La donna che tu mi hai messo accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato». 13 E l’Eterno DIO disse alla donna: «Perché hai fatto questo?». La donna rispose: «Il serpente mi ha sedotta, e io ne ho mangiato». 14 Allora l’Eterno DIO disse al serpente: «Poiché hai fatto questo, sii maledetto fra tutto il bestiame e fra tutte le fiere dei campi! Tu camminerai sul tuo ventre e mangerai polvere tutti i giorni della tua vita. 15 E io porrò inimicizia fra te e la donna e fra il tuo seme e il seme di lei; esso ti schiaccerà il capo, e tu ferirai il suo calcagno». 16 Alla donna disse: «Io moltiplicherò grandemente le tue sofferenze e le tue gravidanze; con doglie partorirai figli: i tuoi desideri si volgeranno verso il tuo marito, ed egli dominerà su di te». 17 Poi disse ad Adamo: «Poiché hai dato ascolto alla voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero circa il quale io ti avevo comandato dicendo: “Non ne mangiare”, il suolo sarà maledetto per causa tua; ne mangerai il frutto con fatica tutti i giorni della tua vita. 18 Esso ti produrrà spine e triboli, e tu mangerai l’erba dei campi; 19 mangerai il pane col sudore del tuo volto, finché tu ritorni alla terra perché da essa fosti tratto; poiché tu sei polvere, e in polvere ritornerai». 20 E l’uomo diede a sua moglie il nome di Eva, perché lei fu la madre di tutti i viventi. 21 Poi l’Eterno DIO fece ad Adamo e a sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì. 22 E l’Eterno DIO disse: «Ecco, l’uomo è divenuto come uno di noi, perché conosce il bene e il male. Ed ora non bisogna permettergli di stendere la sua mano per prendere anche dell’albero della vita perché, mangiandone, viva per sempre». 23 Perciò l’Eterno DIO mandò via l’uomo dal giardino di Eden, perché lavorasse la terra da cui era stato tratto. 24 Così egli scacciò l’uomo; e pose ad est del giardino di Eden i cherubini, che roteavano da tutt’intorno una spada fiammeggiante, per custodire la via dell’albero della vita.

1. Introduzione.
Nel racconto della caduta dei progenitori, contenuto in Genesi cap. 3, vi è il palesamento dei principi attinenti ad un procedimento probatorio mediante cui l’uomo sarebbe stato elevato ad una condizione, di religione e di bontà, superiore a quella in cui aveva vissuto fino a quel momento, perché immutabile. Qualunque elemento sia riconducibile a tale rivelazione è estremamente arcaico e largamente simbolico. Tali simboli attengono al carattere generale del simbolismo biblico e, oltre a costituire dei mezzi didattici, sono anche degli strumenti tipologici, sacramentali, ossia delle prefigurazioni che assicurano la realizzazione futura delle cose simboleggiate. Comunque, il simbolismo non si esaurisce nella dimensione narrativa, quasi si trattasse solo di una forma letteraria (il che comporterebbe il rifiuto della realtà storica degli eventi), ma è un simbolismo realistico che riproduce i fatti realmente accaduti. A questo punto, la moderna interpretazione mitologica potrebbe tornare utile nel mostrare in che modo l’elaborazione mitopoietica miri a presentare fatti realmente accaduti mediante i miti.
2. Quattro principi.
Vi sono quattro grandi principi contenuti in questa rivelazione primordiale, ognuno dei quali è rappresentato dal suo simbolo appropriato. Questi sono:
a) Il principio della vita, che, nella sua massima espressione, è sacramentalmente simboleggiato dall’albero della vita;
b) Il principio della prova, simboleggiato allo stesso modo dall’albero della conoscenza del bene e del male;
c) Il principio della tentazione e del peccato, simboleggiato dal serpente;
d) Il principio della morte, rappresentato dalla decomposizione del corpo.

a) Il principio della vita e di ciò che viene insegnato a questo riguardo dall’albero della vita.
L’albero della vita si trova in mezzo al giardino, il quale innanzitutto “il giardino di Dio” e non un soggiorno per l’uomo in quanto tale. Più precisamente, si tratta di un luogo dove l’uomo viene ammesso alla comunione con Dio, ossia della stessa dimora di Dio. il carattere teocentrico della religione trova qui la sua prima – ma fondamentale – espressione in questa disposizione (cfr. Gn 2,8: Ez 28,13.16). La correttezza di questa lettura trova conferma nella ricomparsa del medesimo simbolismo in forma escatologica alla fine della storia, ove non può esserci alcun dubbio riguardo al principio del paradiso come residenza di Dio, nella quale egli dimora in modo da far dimorare l’uomo con lui. Ma tale simbolismo paradisiaco, con la sua implicazione teocentrica, ricompare ancora in un’altra forma nel Profeti e nei Salmi, in connessione cioè a quei corsi d’acqua che vengono menzionati in modo così significativo in Genesi, in cui si dice che fanno parte del giardino di Dio, anche qui in parte con un rimando escatologico. I profeti predicono che, nell’epoca futura, le acque scorreranno dal monte santo di YHWH. Queste vengono poi descritte come “acque della vita” (proprio come l’albero e un “albero della vita”), che scorrono dal luogo di dimora di Dio. Nell’Apocalisse si legge poi di corsi d’acqua che scorrono dal trono di Dio nella nuova Gerusalemme, con alberi della vita da entrambi i lati (Ap 22,1-2). Si noterà qui che i due simbolismi dell’albero e delle acque della vita sono interconnessi. Quanto ai Salmi, cfr. Sal 65,9; 46,4-5. In questo modo, viene sottolineata la verità secondo cui la vita procede da Dio, la quale consiste, per l’uomo, nell’intimità con lui e che lo scopo principale della relazione di Dio con l’uomo è di permettere e creare tale intimità.
Dal significato dell’albero in generale se ne può discernere l’uso specifico. Da Ge 3,22 (“E l’Eterno DIO disse: «Ecco, l’uomo è divenuto come uno di noi, perché conosce il bene e il male. Ed ora non bisogna permettergli di stendere la sua mano per prendere anche dell’albero della vita perché, mangiandone, viva per sempre»”) risulta che, prima della caduta, l’uomo non aveva mangiato dell’albero, mentre non si evince niente riguardo ad una proibizione di mangiarne, la qual cosa sembra indicare che l’uso dell’albero fosse riservato al futuro, in accordo con il significato escatologico che gli verrà attribuito in seguito. L’albero era associato alla vita più elevata, immutabile ed eterna che sarebbe stata concessa a seguito della prova. Anticipare il risultato con un effettivo godimento del frutto sarebbe stato in disaccordo con il suo carattere sacramentale. Successivamente, una volta che all’uomo fosse stato assicurato il raggiungimento della vita suprema, l’albero sarebbe risultato, in modo appropriato, il mezzo sacramentale per la comunicazione di tale vita. Dopo la caduta, Dio attribuisce all’uomo la disposizione a carpire il frutto contro il suo stesso volere divino, ma è proprio questo desiderio a farci comprendere che esso era, in qualche modo, lo specifico sacramento di vita per il periodo successivo alla prova. Stando ad Ap2,7 (“Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese: a chi vince io darò da mangiare dell’albero della vita, che è in mezzo al paradiso di Dio»”), è a chi vince che Dio promette di dare dell’albero della vita che è nel paradiso. Dopo la caduta, lo sforzo per ottenere il frutto avrebbe significato un tentativo disperato di rubarlo, essendo stato perso il diritto di mangiarne (cfr. Gn 3,22).

b) Il principio della prova e ciò che viene insegnato a questo riguardo mediante il simbolismo dell’albero della conoscenza del bene e del male.
Anche quest’albero si trova in mezzo al giardino (cfr. Gn 2,9; 3,3). Il mistero che lo circonda è maggiore, per cui, rispetto all’albero della vita, le diverse opinioni a suo riguardo sono di gran lunga più numerose.
C’è anzitutto l’interpretazione mitica, che considera l’albero come parte di una mitologia pagana introdotta nel documento biblico. Il concetto da essa propugnato è completamente pagano e riguarda il timore, da parte degli dei, che l’uomo ottenga qualcosa che essi considerano un loro privilegio divino esclusivo, da preservare gelosamente. L’esisto finale risulta intrinsecamente connesso all’atto di mangiare il frutto: da qui il divieto di mangiarne, così da negargli quanto viene definito la “conoscenza del bene e del male”. In cosa consista questa conoscenza secondo il mito, non è interpretato da tutti univocamente. Alcuni teorizzano che il mito sottintenda l’elevazione dell’uomo da uno stato puramente animalesco, in cui versava, ad un piano di esistenza razionale e più propriamente umana. Gli dèi volevano che l’uomo rimanesse un animale, per questo gli proibirono di mangiare del frutto che gli avrebbe conferito la ragione.
Secondo un’altra interpretazione, il mito presenterebbe un’alta concezione della condizione originaria dell’uomo, il quale sarebbe stato dotato di ragione fin dall’inizio, pur vivendo ancora nella barbarie, in uno stato aculturale. Gli dèi avrebbero voluto impedirgli di raggiungere la civilizzazione, considerandola una loro prerogativa esclusiva. Secondo queste formulazioni, dunque, dell’interpretazione mitica, la motivazione attribuita agli dèi dall’artefice del mito era la stessa; le differenze atte go alla mutevole interpretazione di cosa si intendesse con “conoscenza del bene e del male”.
Un’obiezione che si potrebbe muovere contro il dato comune a queste due interpretazioni (ovvero l’attribuzione della gelosia alla divinità) è – per quanto riguarda il racconto biblico – la seguente: è Dio steso a piantare l’albero nel giardino. Ciò equivarrebbe ad una istigazione a far pervenire l’uomo proprio allo stresso risultato che la sua gelosia aveva cercato di impedire. Per giunta, l’effettivo risultato mal si accorda con l’esisto previsto da questa versione pagana della narrazione. Dopo che l’uomo ha materialmente mangiato dell’albero, Dio non si comporta come se avesse qualcosa da temere dalla sua trasgressione. Egli mantiene a sua superiorità assoluta. Invece l’uomo gli sta innanzi da povero e disperato peccatore qual è divenuto.
Diverse sono le obiezioni alla seconda lettura della versione del racconto mitico, in base alla quale la cosa proibita era l’innalzamento ad uno stato di “cultura”. Priama di tutto, questa lettura si basa di un’interpretazione amorale, fisica della locuzione “conoscenza del bene e del male”, la quale sposta nella sfera fisica il significato della conoscenza di quanto risulta benefico o dannoso, altrimenti l’ottenimento della conoscenza del bene e del male non potrebbe raffigurare il progresso civilizzatore. Ora, non si contesta che la locuzione in questione non possa avere, e non abbia mai, il significato attinente alla corporeità: si ammette finanche essere stata questa, in principio, l’antica applicazione della locuzione, prima di essere adottata specificatamente per la sfera etica. Non conoscere il bene e il male descrive l’immaturità dell’età puerile ed anche ella senilità, allorquando si dice che le persone sono diventate infantili (cfr. Dt 1,39: Is 7,15-16). Si ribadisce, invece, che la locuzione abbia anche il significato specifico di maturità attinente alla sfera etica (cfr. 2Sam 14,17-20) e che, per di più, il contesto della narrazione in esame ci obblighi ad intenderla in questo senso. Il sintomo concreto tramite cui viene illustrato, nel racconto, l’effetto della conoscenza del bene e del male è il senso di nudità, e di nudità non in quanto condizione oltraggiosa e disagevole, ma come un qualcosa che desta sensazioni di ordine etico.
Un’ulteriore obiezione a questa seconda forma di versione mitica potrebbe essere desunta dal ruolo primario svolto dalla donna nella transazione. Era mai possibile che un mitopoieta orientale assegnasse un tale ruolo ad un componente di quello che, in Oriente, era solitamente considerato il “sesso inferiore”? era mai possibile che, in quell’ambiente, la donna fosse considerata più efficiente dell’uomo per favorire il progresso della civiltà? La fatica dell’agricoltura, uno dei fattori più potenti nel progresso della civiltà, viene rappresentata nel racconto come una punizione, non come qualcosa di piacevole dal punto di vista dell’uomo che gli dèi gli impediscono di ottenere. Per poter aggirare questi ostacoli, d’innegabile consistenza, alcuni autori propongono di suddividere la narrazione in due sezioni, trovando nell’una la rappresentazione della gelosia divina suscitata dal timore di un eventuale progresso umano nella cultura e, nell’altra, il racconto della caduta dell’uomo in peccato in armonia con l’interpretazione tradizionale.
Una seconda interpretazione del significato dell’albero e della locuzione “conoscenza del bene e del male” si basa sull’osservazione linguistica in base a cui, in ebraico, “conoscere” può voler dire “scegliere”. L’espressione idiomatica sarebbe dunque da rendere con “l’albero della scelta del bene e del male”. Alcuni la intendono in senso generale di albero mediante cui l’uomo doveva fare la scelta fra il bene ed il male, il che equivarrebbe a dire “l’albero della prova”. Altri danno un significato particolarmente sinistro al termine “conoscere”, intendendolo come la scelta indipendente ed autonoma operata contro il volere di Dio riguardo a quanto era bene e a quanto era male per l’uomo. Questa interpretazione fa del nome dell’albero un cattivo presagio, che anticipa l’esito disastroso. Di per se stesso, ciò non sarebbe impossibile, sebbene sia difficile considerarla un’interpretazione credibile. Ad ogni modo, è da confutare una tale deformazione arbitraria fatta subire al verbo “conoscere” che, da significare “scegliere” in generale, con una connotazione neutra, diventa, in modo tendenzioso, “scegliere presuntuosamente”, sul cui uso non vi sono prove da poter addurre.
L’obiezione più fondata contro tutta la tesi presentata, in entrambe le versioni, deriva dal fatto che quest’ultima considera la conoscenza come l rappresentazione di un atto, quello di scegliere, e non la descrizione di una condizione, ossia la cognizione del bene e del male. Ora, nell’esisto del racconto, il simbolo della “conoscenza del bene e del male” trova riscontro nella consapevolezza della nudità, e questa corrisponde ad una condizione, non ad un’azione.
Si giunge così alla tesi più accreditata nel passato: l’albero è definito “della conoscenza del bene e del male” perché esso è lo strumento stabilito da Dio per condurre l’uomo, mediante la prova, ad uno stato di maturità religiosa e morale che ne comporterà la massima beatitudine. Il significato fisico della locuzione è stato trasferito alla sfera spirituale. In base a tale interpretazione, il nome dell’albero non pregiudica il risultato; pervenire alla conoscenza del bene e del male non è necessariamente qualcosa di spiacevole e colpevole: essa avrebbe potuto essere avvenuta tanto in un modo buono (se l’uomo avesse superato la prova) quanto in uno malvagio (nel caso l’uomo fosse caduto). Quanto alle conseguenze, il nome dell’albero è neutrale. Il fatto che tutto questo venga frequentemente trascurato è dovuto alla forma proibitiva assunta dall’esame-prova. Essendo stato proibito all’uomo di mangiare dell’albero collegato alla conoscenza del bene e del male, si è dedotto, avventatamente, che gli fosse stata proibita la conoscenza del bene e del male. Tutto questo è frutto, naturalmente, di un equivoco, infatti la forma proibitiva della prova ha una causa totalmente differente.
Se ci si chiedesse in che modo si sarebbe potuta conseguire la maturità designata con la “conoscenza del bene e del male” – tanto in un senso piacevole quanto spiacevole -, dovremmo guardare anzitutto alla forma esatta della locuzione in ebraico. L’espressione in esame non è esattamente “conoscenza del bene e del male” ma, tradotta letteralmente, suonerebbe così: conoscenza del bene-male, cioè del bene e del male in correlazione fra loro, come concetti che si condizionano reciprocamente. L’uomo avrebbe ottenuto qualcosa che non aveva raggiunto prima. Egli avrebbe imparato il bene in chiara contrapposizione con il male, e viceversa. Diviene pertanto chiaro in che modo egli sarebbe pervenuto a tale conoscenza: imboccando una delle due strade di questo bivio-prova. Se l’uomo avesse superato la prova, il contrasto fra il bene e il male gli si sarebbe impresso vividamente nella mente ed egli sarebbe stato in grado di discernere il bene ed il male grazie alla nuova illuminazione del suo intelletto, che egli avrebbe ricevuta mediante la crisi della tentazione, nella quale le due cose sarebbero entrate in collisione. Se invece egli avesse ceduto alla prova, allora il contrasto fra il male ed il bene gli si sarebbe impresso in modo ancora più vivido, perché il ricordo dell’esperienza passata (la scelta del male) e la consapevolezza dell’esperienza del presente e continua (di fare il male) si sarebbero contrapposti al ricordo del bene sperimentato prima della prova e gli avrebbero mostrato in modo oltremodo nitido quanto il bene ed il mal divergano fra loro. La percezione di tale differenza, in cui consisteva la maturità, si imperniava su di una questione di cardinale importanza: che l’uomo facesse la sua scelta per amore di Dio e di Dio soltanto.
Ovviamente, è possibile fare riferimento al mero comandamento di Dio per trovare la ragione fondamentale che spieghi perché qualcosa è buono o cattivo. Tale ragione fondamentale dipende dalla natura di Dio che regola il suo comandamento. Tuttavia, in questo caso non si tratta di una questione relativa ad una definitiva teologia o metafisica del bene e del male. Per il proposito pratico e semplice di questa prima lezione fondamentale, era solo necessario poggiar tutto, senza discutere, sulla volontà di Dio. vi era anche un’altra ragione: se la natura intrinseca del bene e del male avesse avuto qualcosa a che fare con la prova, si sarebbe trattato di una scelta dettata solo dall’istinto piuttosto che di una vera e propria deliberazione. Invece, il vero scopo della prova era di elevare l’uomo fino al punto di fare una scelta per dimostrare il suo attaccamento a Dio solo.
Troppo spesso si compiono le cose in base ad un impulso etico squisitamente privato, scartando come ingiuste le richieste inspiegabili ed immotivate di Dio. È una nobile cosa compiere il bene e rigettare il male in base ad una presa di coscienza ponderata delle due rispettive nature, ma è ancor più nobile farlo per riguardo alla natura di Dio, mentre la cosa più nobile di tutte è la forza etica che, al bisogno, agirà in base al personale attaccamento a Dio, senza mettersi a cavillare tanto su queste motivazioni più astruse. La pura gioia di obbedire, poi, si aggiunge al valore etico della scelta. Nel caso in esame, era solo questo il fattore determinante, per ottenere il quale fu necessario ricorrere ad una proibizione arbitraria, di modo che l’arbitrarietà stessa escludesse qualunque istintività nel perseguimento dell’esito finale.
Avendo appurato l’esatta concezione e le finalità dell’albero, si deve considerare la diversa interpretazione datane dal Tentatore secondo Gn 3,5, la quale comporta una duplice implicazione: la prima è che l’albero ha in se stesso il potere di conferire magicamente la conoscenza del bene e del male, il che fa scadere il livello dell’intera transazione dalla sfera religiosa e morale a quella magico-pagana; la seconda è che Satana motiva il divieto con l’invidia e questo, come già osservato, comporta un’interpretazione pagano-mitologica. L’affermazione divina di Gn 3,22 allude a questa rappresentazione menzognera del Tentatore ed è ironica.
c) Il principio della tentazione e del peccato simboleggiati dal serpente.
Esiste una differenza fra la prova e la tentazione, eppure queste sembrano qui due aspetti della medesima transizione. Tale stretta correlazione si riflette perfino nell’uso di parole identiche per indicar i due fenomeni, in ebraico come in greco. Si potrebbe affermare che, quanto dal punto di vista divino costituiva una prova, venne utilizzato dalle forze del male per inocularvi l’elemento della tentazione. La differenza fra le due cose consiste nel fatto che, mentre dietro una prova si cela un bene, dietro la tentazione si annida un intento malvagio, sebbene entrambe utilizzino lo stesso materiale. Naturalmente bisogna escludere che Dio tenti qualcuno con un proposito malvagio (cfr. Gc 1,13: “Nessuno, quando è tentato dica: «Io sono tentato da Dio», perché Dio non può essere tentato dal male, ed egli stesso non tenta nessuno”), ma è altresì importante insistere sul fatto che la prova è parte integrante del piano divino per l’umanità. Perfino se non fosse esistito alcun Tentatore o se questi non fosse apparso nella crisi, perfino allora sarebbe stata escogitata una qualche forma per sottoporre l’uomo alla prova, per quanto ci sia impossibile congetturare quale questa sarebbe potuto essere.
Sorge il problema di come considerare il ruolo svolto dal serpente nella caduta ed il suo tradizionale collegamento ad uno spirito maligno. Ci sono opinioni contrastanti a riguardo. Tenendo conto dell’avversione moderna a molto del realismo biblico in genere, parecchi sono inclini ad interpretare allegoricamente l’intero racconto, in cui l’autore non avrebbe inteso descrivere un avvenimento in particolare, quanto i tentativi costantemente reiterati del peccato di fare breccia nel cuore umano. Pertanto il serpente assurge a simbolo o ad allegoria insieme a tutto il resto. Questa lettura è in netto contrasto con lo scopo del racconto biblico. In Gn 3,1 il serpente viene equiparato a tutti gli altri animali fatti da Dio: se gli altri erano reali, allora lo era anche lui. Al v. 14, il castigo viene espresso con termini che presuppongono un vero serpente.
Altri si sono spinti all’estremo opposto, giungendo ad affermare che non c’era nient’altro che un serpente, e certamente i termini impiegati nei brani appena citati si confarebbero meglio a questa lettura piuttosto che a quella allegorica. Però mal si accorda con l’insegnamento scritturale sul mondo animale in generale immaginare che un semplice serpente parli. La Bibbia, contraria a qualsiasi confusione panteistica, mantiene sempre la distinzione fra l’uomo, che parla, e gli animali, che non parlano, cui fa sola eccezione l’asina di Balaam.
Si rende pertanto necessario adottare la visione tradizionale, secondo cui vi fu la compresenza di un serpente reale e di una potenza demoniaca, la quale si servì del primo per portare a segno il proprio piano. Non essendoci nulla di impossibile in tutto questo, esiste una forte analogia con gli indemoniati dei vangeli, delle cui bocche si servono i demoni per parlare. Le recenti scoperte archeologiche hanno rivendicato, a questo riguardo, la correttezza dell’antica esegesi, poiché, nelle rappresentazioni babilonesi, dietro l’immagine del serpente appare spesso la figura di un demonio. D’altronde c’è un’ampia testimonianza biblica attestante la presenza di uno spirito maligno nella tentazione. È pur vero che l’AT non fa luce sull’argomento e questo per la duplice ragione che, da un lato, raramente si fa riferimento alla caduta e, dall’altro, che tutto l’argomento degli spiriti maligni e del “Satana” l’avversario, è rimasto celato per lungo tempo .
La Scrittura afferma che “il serpente era il più astuto di tutti gli animali dei campi”, ed è proprio la sua astuzia a renderlo adatto ad essere lo strumento del Demonio. Se Satana fosse apparso schietto ed impudente, la tentazione sarebbe stata molto meno allettante. Il Tentatore si rivolge alla donna, probabilmente non perché essi sia più aperta alla tentazione o maggiormente portata a peccare, giacché sarebbe difficile riuscire a trovare un’idea simile in tutto l’AT. Forse il serpente fu motivato dal fatto che la donna, a differenza di Adamo, non aveva ricevuto direttamente la proibizione da patte di Dio (cfr. Gn 2,16-17).
Il processo della tentazione si divide in due fasi: in entrambe, lo scopo principale del Tentatore è di inoculare i germi del dubbio nella mente della donna. Però il dubbio espresso nella prima fase è di natura apparentemente innocente, in quanto riguarda una constatazione di fatto. Eppure, fin da allora si può scorgere, frammista a questa, un’allusione accortamente velata ad un dubbio di gran lunga più insidioso: quello della sfiducia nella parola di Dio in quanto tale. Nella seconda fase della tentazione, questa forma seria di dubbio getta via la maschera, poiché, nel frattempo, la donna ha già dato accesso in linea di principio al pensiero che all’inizio le era stato prospettato. Nella prima fase, si era trattato di una semplice constatazione di fatto: “Come! Dio vi ha detto di non mangiare da nessun albero del giardino?”. Ma è proprio qui che troviamo traccia di un aspetto ben più grave della “constatazione”, nelle parole “da nessun albero del giardino”. Così dicendo, il serpente lascia intravvedere la possibilità che, se fosse stato emanato davvero un simile divieto, Dio sarebbe stato fin troppo generico nel vitare all’uomo i frutti di tutti gli alberi.
A questo punto, la donna ha due diverse reazioni. Anzitutto, riguardo alla constatazione dei puri fatti, essa respinge l’insinuazione che sia stato effettivamente emanato un qualche divieto del genere: “Dio ha detto”. Però, mentre respinge quell’insinuazione riferita a Dio – che avrebbe esteso il raggiro della proibizione a tutti gli alberi (“Del frutto degli alberi del giardino ne possiamo mangiare”) -, nel fare ciò balena dalla forma più o meno segnata di questa smentita che la donna aveva già cominciato a carezzare l’idea che Dio fosse stato fin troppo severo nell’imporle questa limitazione. Così, avendo albergato quel pensiero, seppure per un momento, ella aveva già iniziato a separare, in linea di principio, i diritti di Dio dai propri. Così facendo, Eva aveva aperto il cuore al germe dell’atto peccaminoso, ed è ancora in questa direzione che va intesa la sua citazione imprecisa delle parole pronunciate da Dio; “Non ne mangiate e non lo toccate, altrimenti morirete”. Introducendo questa ingiustificata proibizione del vantaggio di “toccare”, la donna tradisce un sentimento, ossia che, in fin dei conti, tutte le disposizioni adottate da Dio erano, forse, troppo rigide.
Satana non si lascia sfuggire l’occasione di approfittare del vantaggio così ottenuto, e passa sfacciatamente alla seconda fase della tentazione, in cui cerca di suscitare nella donna il dubbio riguardo alla forma esatta del divieto preannunciato da Dio, portandola a diffidare della sua parola in quanto tale: “No, non morirete affatto”. Considerando il testo ebraico, bisognerebbe valutare la posizione della negazione all’esordio della frase. Dove, per metterla in evidenza, vengono posti assieme un verbo all’infinito ed uno di modo finito, a cui segue una negazione, quando di solito la negazione viene posizionata in mezzo. Se nel nostro testo fosse stata seguita la normale costruzione sintattica, la corretta traduzione sarebbe stata: “Sicuramente non morirete”, il che sarebbe servito semplicemente a porre in dubbio l’adempimento della minaccia. Invece, l’insolita costruzione della frase veicola quest’altro significato: “Non è così (quello che ha detto Dio): Sicuramente morirete”. Con ciò si intende smentire, nel modo più mordace, la parola di Dio e, alla tentazione di dare a Dio del bugiardo, si adduce una motivazione verosimile del suo mentire, ossia che vi sarebbero dei motivi reconditi che ne renderebbero inaffidabile la parola: egli mente per motivi egoistici: “Ma Dio sa che nel giorno che ne mangerete, i vostri occhi si apriranno e sarete come Dio, avendo la conoscenza del bene e del male”.
Dopo averla indotta a queste disposizioni, per farle commettere l’effettivo atto peccaminoso, non resta che allettare a donna con l’aspetto delizioso del frutto, che si confaceva apparentemente all’effetto benefico attribuito alla manducazione. Non è, comunque, il mero aspetto sensoriale a determinare la scelta di Eva, ma una motivazione più complessa: “La donna osservò che l’albero era buono per nutrirsi, che era bello da vedere e che l’albero era desiderabile per acquistare conoscenza”. La motivazione chiave di questa azione fu, almeno in parte, identica alla motivazione principale che aveva rafforzato la tentazione. Qualcuno ha fatto notare, acutamente, che la donna, cedendo a questo pensiero, mise effettivamente il Tentatore al posto di Dio. Era Dio a nutrire dei propositi benevoli, mentre il serpente aveva dei disegni malvagi, ma la donna agisce in base al presupposto che l’intenzione di Dio sia malevola e che Satana, al contrario, sia animato dal desiderio di favorire il suo benessere.
d) Il principio della morte simboleggiato dalla decomposizione del corpo.
In base a Gn 2,17, Dio disse: “Ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; poiché nel giorno che mangerai, certamente morirai” (cfr. Gn 3,3). In base a queste parole, in passato si è sempre creduto che la morte sia la punizione per il peccato e che, a causa del peccato originale, la razza venne sottoposta alla morte per la prima volta. Oggigiorno, molti autori trovano da ridire su tutto questo, perlopiù per motivi scientifici . In questo caso, le argomentazioni esegetiche “postume” – secondo cui nel racconto della caduta la Bibbia insegnerebbe che l’uomo era stato creato soggetto alla morte – meritano di essere esaminate in quanto esempi di questo genere di esegesi. Si tratta elle seguenti:
1. L’albero della vita viene rappresentato come qualcosa da cui l’uomo non aveva ancora mangiato, per cui, non essendo stato ancora dotato di vita, l’uomo era soggetto alla morte.
2. In Gn 3,19, viene affermato esplicitamente che il ritorno dell’uomo alla polvere è naturale: “finché tu ritorni alla terra perché da essa fosti tratto; poiché tu sei polvere, e in polvere ritornerai”.
3. Gn 2,17 dimostra che il senso della minaccia non era che il peccato avrebbe fatto morire l’uomo, ma che, più semplicemente, il peccato lo avrebbe portato ad una morte istantanea, prematura: “perché nel giorno che tu ne mangerai, per certo morrai”.
Ora, ciascuna di queste tre argomentazioni si basa su di una esegesi corriva. La prima trascura di distinguere fra la vita che l’uomo ricevette in virtù della creazione e quella vita superiore ed indistruttibile che egli avrebbe dovuto ottenere mediante la prova, di cui l’albero della vita era il probabile sacramento in prospettiva. Il fatto che non se ne fossero ancora mangiati i frutti non può voler dire un’assenza di vita in generale, che comporterebbe la necessità della morte. Nel giardino, l’uomo godeva della comunione con Dio e, secondo quanto afferma Gesù, Dio non è un “Dio dei morti ma dei vivi” (Lc 20,38).
Per poter considerare valida la seconda tesi, dovremmo estrapolare il testo biblico in questione dal suo contesto. Le parole “poiché sei polvere, e in polvere ritornerai” fanno parte della maledizione. Se esprimessero la pura e semplice enunciazione del destino dell’uomo, in quanto creato mortale, in esse non vi sarebbe nulla della maledizione, né è possibile sostenere che, qui, l’implicito elemento di maledizione sia la morte prematura. Sono le parole precedenti ad impedirlo le quali, difatti, indicano un lento processo di lavoro faticoso ed estenuante che conduce alla morte. La congiunzione “finché” non è semplicemente cronologica, come se il testo intendesse dire: “Dovrai sopportare un duro lavoro, fino all’ora della morte”; indica, invece, un crescendo di intensità: “Alla fine, il tuo duro lavoro ti ucciderà”. Nella lotta dell’uomo contro il suolo, sarà questo a spuntarla e a rivendicarne il cadavere. Di conseguenza, se la seconda parte dell’affermazione sottintendesse la naturalità della morte, questa sarebbe in contraddizione con la prima, dove il ritorno alla terra viene rappresentato come una maledizione. Ma cosa intendono le parole finali, che collegano chiaramente la creazione della terra con il ritorno ad essa? La spiegazione più semplice è che esse non affermano che il destino naturale sia la morte, ma spiegano la forma particolare in cui era stata espressa in precedenza la maledizione della legge, vale a dire la forma del ritorno alla terra-suolo, la quale, a sua volta, era dovuta alla forma in cui era stata descritta la maledizione: una lotta dura e fatale contro la terra-suolo. Ora, le parole conclusive spiegano non che la morte debba giungere, ma perché, una volta giunta, essa assuma quella forma specifica di un ritorno alla terra-suolo. In altri termini, qui ad essere collegata con la creazione non è la morte in quanto tale, ma il modo in cui essa si verifica. Se l’uomo fosse stato creato diversamente e la morte fosse sopraggiunta mediante il peccato, allora la morte avrebbe potuto assumere una forma differente. La morte viene adeguata, quanto alla forma, alla costituzione naturale, materiale dell’uomo, ma non deriva necessariamente da quest’ultima.
Da ultimo, la sottolineatura della locuzione “nel giorno” di Gn 2,17 non è solo peregrina ma, ai fini dell’esito del racconto, risulta impossibile, in quanto nulla indica che una qualche minaccia di morte immediata, prematura non si sia compiuta, né che Dio, in seguito, abbia mitigato o modificato la maledizione. Una rudimentale conoscenza dell’ebraico basterà a dimostrare che la locuzione in questione significa semplicemente “è certo che quando ne mangerai”. La stretta congiunzione temporale è usata in senso figurato per indicare un evento ineluttabile.
4. Conclusioni.
In conclusione, se la vita consisteva nella comunione con Dio allora, in base al principio degli opposti, la morte avrebbe potuto essere interpretata come separazione da Dio. in questo modo, si sarebbe preparata la strada allo sviluppo dell’idea di morte in senso più interiore. Troviamo un’allusione alla morte cme separazione da Dio in Gn 3,23: “Perciò l’Eterno DIO mandò via l’uomo dal giardino di Eden, perché lavorasse la terra da cui era stato tratto”: lavorare la terra contiene un innegabile rimando al v. 19 (“mangerai il pane col sudore del tuo volto, finché tu ritorni alla terra perché da essa fosti tratto; poiché tu sei polvere, e in polvere ritornerai”). In altri termini, l’allontanamento dal giardino (ossia dalla presenza di Dio) equivale ad un allontanamento verso la morte. La morte dell’uomo affonda le radici nella sua alienazione da Dio.